Don Mario, un prete tra i rovi sulle rive di Stura (2ª parte)

Picco Don Mario

A don Mario Picco viene anche riconosciuto «un vero e proprio ministero dell'amicizia», in primis da don Michelangelo Priotto, ma confermato da schiere di persone, per lo più i giovani di 30/40 anni fa, ancor oggi pronte a testimoniare il suo modo unico ed irripetibile di "farsi amico", che è precisamente quanto all'epoca pennellava in modo efficace Marcella Sanino: «Sapeva essere amico in modo così personalizzato che ad ognuno di noi ha lasciato qualcosa di particolare ed unico, che non si può generalizzare...», aggiungendo subito: «Sapevi che era amico di tanti, ma quando eri con lui sentivi che il suo affetto era tutto per te; aveva l'abitudine di chiamare ogni persona con un nomignolo che solo lui usava, quasi a sottolineare il posto speciale che ciascuno di noi aveva nel suo cuore...».

Il triennio di docenza al Liceo Scientifico sembra essere un tempo sufficiente per accendere il gusto del trascendente nei giovani, ai quali fa conoscere anche ««Nietzsche e Bonhoffer, Cristo e Marx, la teoria del risentimento e lo scandalo della croce, l'importanza dell'Esodo e il mistero della risurrezione». Coltiva i loro dubbi e accende le loro speranze, appaga la loro sete di conoscenza e risveglia le mille domande da sempre sopite nei cuori giovanili. «Sapevamo di avere vicino a noi un tesoro», dicono i suoi studenti di allora, «e lo volevamo sfruttare più di un'ora alla settimana», cioè ben oltre la durata dell'insegnamento curricolare. Eccoli pronti, allora, ad accettare «i suoi "inviti a cena" nei venerdì di quaresima, cioè digiuno e preghiera nella cappella del Seminario, le code dei liceali durante le confessioni nelle veglie diocesane, quando tutti si voleva "passare da lui"», tanto che «nelle occasioni che abbiamo parlato di lui, magari con gli amici di altre scuole, o più giovani, lo abbiamo fatto quasi con orgoglio, con un senso di fierezza per averlo avuto con noi per tre anni». Far innamorare i giovani, accendere in loro il "dubbio della fede", alimentare il loro "tormento di credere" sembra la vocazione specifica di don Mario, che non si stanca di ripetere: «Fede non vuol dire credere che Dio esiste, perché anche il demonio sa che Dio esiste; fede è stare su Dio... abbarbicati alla sua presenza, come l'edera sta abbarbicata all'albero, al muro». Nella gioia della propria vocazione, che sente pienamente realizzata e interamente "donata", quasi "scorticata" dagli altri, ripetutamente confessa: «Sono tanto contento di essere prete, e proprio prego il Signore che me ne faccia vedere pure di tutti i colori, ma non permetta mai che io mi allontani da Lui; io credo proprio di amarlo di amore vero».

A un prete, tanto innamorato di Dio e del suo essere prete, non si può che affidare il seminario, perché ne escano preti «che abbiano attenzione all'uomo ma che nello stesso tempo sappiano essere uomini di Dio, che lo cerchino nella preghiera e nell'ascolto della Parola, uomini sereni, pazienti, accoglienti».  Per un decennio, avendo sempre a fianco l'altro don Mario ("il Dompè"), il timone del seminario resta nelle sue mani con l'unico obiettivo di farne un centro di fede autentica, perché, non si stanca di ripetere, «è tutta una questione di crescita nella fede, perché chi cresce nella fede, cresce nella disponibilità a Dio». Don Derio Olivero, testimone di quegli anni fecondi, ricorda che «a noi chierici diceva: "Non parlate tanto di Dio agli altri, parlate molto a Dio degli altri". E questo lui faceva innanzitutto: parlare di noi a Dio, portare noi, tutti, sull'altare». Come se non bastassero i tanti finora enumerati, sulle spalle di don Mario si aggiungono gli impegni allo Sti e all'Issr per l'insegnamento della Teologia Fondamentale, all'Unitre per l'insegnamento della Storia del Cristianesimo, in Diocesi per la formazione permanente del clero. Poco prima della morte diventa anche assistente spirituale delle Missionarie Diocesane, alle quali chiede «di essere tutte di Dio e tutte degli uomini, per far prendere al mondo voglia di Dio».

Alludendo ad una continua ascesi, verso cui sempre sprona chiunque lo avvicina, un giorno scrive: «Sii un'incallita vagabonda in cerca di mete sempre nuove e sempre più alte... la morte ti colga in salita». La sua gli viene incontro la sera del 4 novembre 1990, a 42 anni appena, in un tratto rettilineo della provinciale da Caraglio a Tarantasca ed ha i contorni di un incidente tanto drammatico quanto assurdo. Sta tornando a Fossano da San Lorenzo di Caraglio, dove, dicono, abbia appena terminato la recita del rosario per i defunti insieme a sua mamma ed ai suoi fratelli. Lo schianto, pur tremendo, della sua vettura contro l'articolato che ingombra la carreggiata non è nulla in confronto a quello provocato in quanti, e sono veramente tanti, hanno trovato posto nel suo cuore e che di colpo si sentono orfani. «Non potremo più avere un papa chiamato Modestino I», commentano i suoi liceali, alludendo a quando ironicamente pronosticava il suo futuro e la sua ascesa al soglio pontificio. E le loro lacrime si fondono con quelle di mons. Natalino Pescarolo, da pochi mesi amministratore apostolico di Fossano, che si domanda «Come faremo senza di te?», e dei tanti nelle cui orecchie risuonano le parole che egli utilizzava per spiegare il senso della Risurrezione di Gesù: «Un uomo così, fedele a Dio e tutto per i fratelli, non poteva rimanere morto». E, pur attendendo ancora la pienezza della risurrezione, sembra proprio che da 31 anni a questa parte don Mario non possa "rimanere morto". Tanto che, sebbene morto, parla ancora.

(2 - fine)