Un posto alla “sua” destra per il “medic dij pòver” (2ª parte)

Costanzi Francesco

Se poi è vero, secondo la spiritualità ebraica, che “chi salva una vita salva il mondo intero”, che dire allora del rischio che il dottor Costanzi corre per salvare dalla deportazione l'ebrea belga Dvorah Schneider? Dopo la deportazione ad Auschwitz del marito Joseph, la povera donna, con due figli al seguito, arriva a Cuneo da Anversa attraverso Saint Martin Vésubie nel settembre 1943 e su un carro bestiame, stipato di donne e bambini, tenta di raggiungere Torino. Terrorizzata dalle voci sempre più insistenti che segnalano i tedeschi ormai nella zona, all’altezza del santuario di Cussanio, approfittando di un rallentamento del convoglio, salta giù dal treno insieme ai suoi bimbi e nella caduta si ferisce seriamente. Il dottor Costanzi, cosciente della sua identità di ebrea in fuga, non solo la opera immediatamente, ma dopo la guarigione la nasconde all’interno dell’ospedale, facendola passare per una dipendente, e tramite mons. Dionisio Borra riesce a collocare i bambini in due istituti religiosi fossanesi. Il che permetterà ai tre, a guerra finita, di ricongiungersi al papà, sopravvissuto a tre campi di concentramento. Se oggi resta un rimpianto è che né il dottor Costanzi né monsignor Borra (che di ebrei ne ha nascosti parecchi) siano stati ufficialmente riconosciuti “Giusti”.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta la salute di Costanzi comincia a vacillare, come se la sua forte fibra sia ormai logora per il troppo spendersi per gli altri. Una sera del 1956, racconta Beppe Manfredi, lo vedono accasciato contro il muretto del “Caffè della Scala” e a lui che accorre premuroso mormora: «Beppe, chiamami il dottor Viglietta». Si tratta forse del primo segnale di uno scompenso cardiaco, di fronte al quale l’interessato non si cautela interrompendo l’attività medica o concedendosi un meritato riposo: sa benissimo che al “suo” ospedale e ai “suoi” malati non sarebbe capace a dire di no e, quasi per rasserenare gli animi, a destra e a manca ripete, secondo la testimonianza raccolta da Elisabetta Capello, «tranquilli, non morirò di mal di cuore, ma di emorragia cerebrale». Che puntualmente si verifica il 30 ottobre 1960, di buon mattino, mentre si sta preparando ad eseguire un intervento chirurgico, a conferma che anche in questa autodiagnosi ha visto giusto. Nonostante ogni tentativo per salvargli la vita, muore nelle prime ore del 1° novembre, a 26 anni esatti dal suo arrivo a Fossano.

Il nostro cronista di 60 anni fa non trova le parole per descrivere il dolore di un'intera città, come se per ogni fossanese si trattasse di un lutto di famiglia: la coda interminabile di chi vuole visitare la camera ardente, le lacrime di uomini e donne curati gratuitamente e che in quel momento ricambiano con un fiore o una preghiera, l'imponenza di un funerale che prima di tutto vuole esprimere al “dottore della carità” una riconoscenza collettiva e popolare. A poche settimane dalla morte viene lanciata una sottoscrizione per finanziare una nuova sala radiologica per il SS:Trinità, da intitolare alla sua memoria, inaugurata ad ottobre 1963 e che il dottor Costanzi aveva a lungo vagheggiato. Dei 15 milioni, a cui ammonta la spesa complessiva, 2 milioni e 600 mila sono costituiti per lo più da tanti “oboli della vedova”, come riconoscenza delle categorie più debitrici al “medic dij pòver”. Che comunque avrà trovato infinitamente di più prendendo posto alla “Sua” destra e sentendosi dire che quanto fatto per il più piccolo dei fossanesi era stato fatto direttamente a Lui.

(2 - fine)