Europa, religioni, laicità

Una recente polemica è sorta da un testo dell’Unione europea dedicato all’uso di un linguaggio “inclusivo”, in cui si citava, tra vari esempi, l’avvertenza sull’uso degli auguri natalizi, considerando che non tutti si riconoscono nella religione cristiana. Una vicenda che in sé può sembrare poco rilevante, ma che può sollecitare alcune considerazioni.
• Si conferma l’abilità di alcuni organi di stampa e forze politiche ad utilizzare la religione in modo strumentale, rivendicando una “difesa dei valori religiosi tradizionali”: si è sfruttata l’occasione esasperando un elemento al punto da far pensare all’abolizione del Natale, una “bufala”, utile a sollecitare l’idea di una “Europa cattiva” e irrispettosa della religione e delle culture nazionali.
• In diversi Paesi europei esistono filoni culturali che tendono a risolvere le differenze, azzerandole; una forma di laicismo che - con la giusta preoccupazione di non offendere e non discriminare - finisce per sterilizzare le diversità, invece che promuoverne una relazione corretta e feconda, così da integrarle. Una tendenza che si riflette anche su organismi dell’Ue.
• D’altro lato vi sono Paesi, filoni culturali e partiti che tendono all’opposto: escludere le diversità (ciò in molti casi significa emarginarle e discriminarle) in nome di una difesa della presunta “identità” occidentale e cristiana, che sarebbe “sotto attacco”. Anche in questo caso tale tendenza si riflette nel linguaggio e nelle scelte politiche.
• Queste due tendenze - chiaramente opposte - hanno un elemento in comune, il rapporto “sfasato” con le religioni: dagli uni viste come un fatto solo “privato” che creano problema quando assumono un rilievo pubblico; dagli altri intese come strumento per la conquista del consenso e il mantenimento del potere. Ciò finisce per tradire la natura vera della religione, volta a promuovere una vita autentica sul piano personale e solidale su quello sociale e civile. Entrambe si allontanano dalla sana prospettiva di una laicità ricca di valori, ma sono favorite dalle varie forme di fondamentalismo che attraversano tutte le religioni.
• Se poi guardiamo alla reazione di non pochi cristiani di fronte a questo episodio, si può notare che siamo ancora poco abituati a considerarci una minoranza e a rapportarci serenamente con quanti non praticano o non si riferiscono al cristianesimo. Difficoltà comprensibile, vista la lunga storia di un cristianesimo del tutto maggioritario in Europa, ma per questo divenuto talora pretesto per emarginare o perseguitare le minoranze di altre religioni o strumento di politica coloniale. Tale difficoltà, però, rischia di farci credere di essere “perseguitati” (cosa piuttosto offensiva verso quanti lo sono davvero in diversi Paesi del mondo, a motivo della propria fede).
• In ogni caso, i dati di realtà parlano chiaro: in Italia (e ancor più nel resto dell’Europa) il cristianesimo è seguito da una minoranza del 20-30%, una quota che si riduce assai se si considerano le generazioni giovani e giovani-adulte, mentre al massimo si arriva al 60-70% se si parla di riferimenti alla tradizione, a prescindere dalla partecipazione alla vita ecclesiale.
• Infine, ma siamo al punto essenziale, in questo contesto è certo di aiuto riprendere il senso della “Lettera a Diogneto” per richiamarci allo specifico dei cristiani che vivono in una società pluralista e multireligiosa: esso non risiede nell’esteriorità delle leggi o dei templi e non coincide con le dichiarazioni formali o legali (aspetti comunque significativi), bensì si riconosce - poiché si vive - nella carità condivisa.
Vittorio Rapetti (delegazione regionale dell’Azione cattolica)