Don Bonavia, da Genola alla trincea, per aiutare a ben morire gli eroi dell’Alto Isonzo (2ª parte)

Lapide Bonavia e cappellani militari
La lapide dedicata ai cappellani militari nel cortile della Curia-Vescovado, a Fossano

Tra le tante volte che vede la morte in faccia in una, in particolare, se ne sente addosso il gelido alito: è il 6 maggio 1916, e lo racconta due giorni dopo ai genolesi, tramite lettera al prevosto, con un senso di profonda riconoscenza per lo scampato pericolo. “Sono ancora vivo, sto bene e più di tutto sicuro che la cara Madonna (…) mi ama assai e vuole ad ogni costo farmi tornare a Genola”. Il motivo è presto detto: “Nel baraccamento eravamo in sei: due morti, tre feriti gravi ed io incolume: tale il risultato di una granata scoppiata proprio in quel punto”. Dopo un più che comprensibile intontimento (appena “pochi secondi”, tiene a precisare don Francesco), “non ebbi da allontanarmi per esercitare il mio ministero: avevo a destra e sinistra i miei carissimi clienti, meno di me fortunati. Amministrato l’Olio Santo sub unica unctione ai miei compagni e chiamato soccorso, uscii da quelle macerie annerito in faccia come uno spazzacamino”. È forse un tal incontro ravvicinato con la morte a fargli comprendere ancor di più la fragilità della sua posizione e il pericolo incombente ogni giorno su di lui: per questo la medesima lettera, pur in essa affermando "che alla Vergine delle Grazie devo la mia incolumità" e pur chiedendo ad ogni genolese "un'Ave Maria in ringraziamento", assume le sfumature di un testamento spirituale, con toni di congedo da tutto e da tutti, chiedendo suffragi per lui al prevosto e alla comunità di Genola e mandando "a tutti il mio bacio di pace, assicurando che a tutti ho voluto bene e a tutti ho cercato di rendermi utile".

Se in questa avverte se stesso e gli altri che "devo essere pronto alla chiamata di Dio", è però nella successiva lettera, giunta a Genola pochi giorni prima della morte, che la figura del nostro cappellano militare viene ad assumere contorni a dir poco eroici. Per ottenere dal Cielo che "minimo sia il numero dei caduti e che ognuno di essi salga in seno a Dio", don Francesco infatti dona al Signore la propria vita, siglando la propria offerta con le testuali parole: "Oh, se valesse il mio sacrificio personale per ottenere ciò, ratificherei tosto il patto e caro mi tornerebbe il pensiero di essere stato utile a qualche anima". Non sappiamo, ovviamente, se ed in che modo tale offerta possa essere stata accolta, limitandoci a rilevare che, ad alcuni giorni di distanza, e precisamente il 16 settembre, al momento dell'avanzata, "il bravo cappellano don Bonavia fu più volte esortato di rimanere al primo posto di medicazione. Ma nulla valse, lui amava i suoi soldati... con loro volle morire". È l'alpino monregalese Battista Viglietti, testimone oculare, a raccontare che all'alba di quel giorno "il cappellano si avviava colla prima compagnia verso le trincee avversarie. L'ordine di attaccare non doveva essere che alle otto, quando il sole era già apparso, onde per non essere scoperto dal nemico si riparava col proprio comandante di battaglione in una galleria (...). Se ne stava lieto e tranquillo aspettando di poter compiere la sua missione quando un obice piombò sulla galleria ferendolo a morte. Con lui furono pure vittime altri quattro eroi, compreso il comandante del battaglione. L'azione fu tale che né quel giorno, né il seguente si ebbe mezzo di rintracciarli. Solo il terzo giorno furono raccolti orribilmente sfracellati".

Quel giorno appare evidente quanto già si supponeva, toccando con mano quanto quel cappellano sia stato amato, seguito e venerato dai militari, che ne piangono la morte come quella di un congiunto stretto. Vale, tra le tante, la testimonianza del sergente cerverese Maggiorino Farinetti, anch'egli quel giorno nella medesima trincea, che al suo arciprete don Ciocca rivela che don Francesco "seppe dare volontariamente il sacrificio della sua vita recandosi sul posto di un'azione molto importante, sotto il fuoco incessante delle artiglierie nemiche, gridando ad alta voce che era pronto a portare l'opera sua a chiunque ne avesse bisogno" e concludendo con un'affermazione che suona come un panegirico: “Ogni volta che io passerò vicino alla tomba che racchiude la spoglia del nostro caro don Bonavia, m’inginocchierò sopra di essa, come sulla tomba di un santo”. In quell’anno Genola e Cervere vanno a gara nell’onorare la memoria di don Bonavia con celebrazioni solenni e partecipate, soprattutto in occasione della trigesima. Poi l’oblio sembra scendere su di lui, come su don Felice Domenico Romero, già viceparroco a Villafalletto e cappellano militare in servizio nel Corpo di Sanità, morto per malattia in un ospedale militare il 16 ottobre 1918, e sul chierico Francesco Lingua, centallese di nascita, ragazzo del '99, morto il 6 marzo 1920 per causa di guerra, entrambi menzionati nella medesima lapide (nella foto).

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