Adolescenti e giovani, segnali di fumo

Capita che qualche ragazzino sfregi gli arredi urbani appena installati dall’Amministrazione Comunale.
Capita che gruppi di preadolescenti si diano appuntamento via Social in luoghi in cui scatenare risse furibonde.
Capita che bande di giovanissimi aggrediscano coetanei inermi per portargli via cellulari e portafogli.
Capita – ma non finiscono sui giornali, perciò ne siamo poco informati – che ragazzi fino a ieri docili ed educati, dai voti sempre altissimi, non riescano più ad uscire di casa, nemmeno per andare a scuola.
Capita che i ragazzi si feriscano, smettano di mangiare, sfoghino la loro rabbia in riti collettivi o individuali di bullismo, fisici o virtuali.
La responsabilità è personale, nessuno mette in dubbio che i responsabili di questi atti debbano essere individuati e resi consapevoli del male fatto e richiesti di pentimento e atti di riparazione.
Ma qual è la risposta del mondo adulto a questi segnali di malessere, evidenti richieste di aiuto che i bambini, i ragazzi ci lanciano?
Aumentiamo il numero di telecamere sul territorio, colpevolizziamo le famiglie, scarichiamo nuove “educazioni” sulla scuola, inventiamo nuove leggi contro il cyberbullismo e il revenge-porn…
Non basta, non possiamo continuare a praticare la politica delle “viti storte che necessitano di pali dritti e fili di ferro robusti per essere raddrizzate e divenire conformi a un ideale di giusta normalità”, come fa notare Massimo Recalcati.

A Milano, nel primo giorno di scuola del settembre scorso, 3 ragazzi si sono buttati dalla finestra, una sola è sopravvissuta. Il suicidio è la seconda causa di morte nei giovani tra i 15 e i 24 anni, l’autolesionismo colpisce 1 ragazzo su 5 in Europa.
Questo ci spaventa, allora cerchiamo di medicalizzare i problemi, come se ad ogni comportamento appena sopra – o sotto – le asticelle di una normalità decisa per loro da noi, debba per forza corrispondere una malattia, una sindrome, un deficit che metta in pace la nostra coscienza di adulti.
Non possiamo più eludere la domanda, la richiesta di aiuto, di essere visti, ascoltati, accompagnati, che quelle sfide sguaiate, estreme ci buttano addosso.
Se non altro per rispetto al bambino che siamo stati e che forse è proprio ciò che cerchiamo di dimenticare, invece di prendercene cura.

Maria Paola Longo