Con il suo “umile amore” il vescovo Soracco conquistò i fossanesi (3ª parte)

Soracco Angelo
Monsignor Soracco a Centallo il 25 maggio 1937, per la consacrazione dell'orfanotrofio "Perucchetti" al Sacro Cuore

Dobbiamo dunque a don Sapetti una piccola antologia di gesti di carità spicciola compiuti da monsignor Angelo Soracco: dalle molte richieste di aiuto che riceve ogni giorno, alla coda di poveri che ogni sabato si incolonna davanti al vescovado; dall'affitto pagato per anni ad una povera donna di Chiavari, ai diritti di Curia pagati per uno sposo completamente "al verde" e che per questo si vede rifiutare i certificati necessari al suo matrimonio, fino al lauto pranzo, personalmente servito a Pasqua in vescovado ai dodici poveri cui ha lavato i piedi nella celebrazione del Giovedì santo. Piccoli gesti carichi di umanità e silenziosa carità, cui forse adesso noi siamo più abituati con il pontificato di papa Francesco, ma che 90 anni fa non erano proprio così scontati, specie in un vescovado. «Radunare tutti i poveri beneficati da Lui è impossibile, perché ce ne devono essere che battono strade lontane dal mondo» e anche perché «di poveri ne ha beneficati tanti. E anche tanto», attesta ancora don Sapetti, ricordando come «nessun povero riceveva da Lui meno di cinque lire, ogni volta che lo avvicinava», il che nella valuta attuale equivale a circa cinque euro.

Questa sua prodigalità, soprattutto la sua incapacità di "tirar dritto" o di "guardare altrove" per non accorgersi della povertà che incontra, finiscono per ridurlo alla stregua dei poveri che benefica. «Se filiale pietà di sacerdoti e di fedeli», ricorda don Pellegrino al momento della morte «non gli fosse venuta incontro, forzandolo ad accettare un modesto obolo, non avrebbe potuto pagare le spese dell'ultima infermità», mentre una confidenza di don Sapetti solleva per un attimo il velo sull'estrema indigenza del vescovo: «Quattro giorni prima di morire, dopo avermi assegnato una somma per una pendenza di Curia ancora da saldare, aggiungeva "Forse non mi rimarrà più alcun margine"...e niente più mi farà scordare le parole con cui congedava i sacerdoti, dopo l'amministrazione dell'Olio Santo: "Io non ho denaro per far celebrare delle Messe, vogliate celebrarne voi per me!". Era la prima volta che chiedeva, ma soltanto dopo aver dato tutto».

Parte integrante della “strategia” pastorale di Soracco sono i Congressi eucaristici, difatti ne organizza tre nei pochi suoi anni fossanesi: quello (memorabile) a livello diocesano del 1937 e i due di plaga, nel 1941 a Cervere e nel 1942 a Genola. Sono la sua risposta alle demagogiche adunate fasciste, chiamando a raccolta e serrando le fila di ciò che resta, perché impegnata al fronte, della gioventù cattolica, chiamata sempre al suo fianco sia nella fase organizzativa che gestionale dei singoli eventi diocesani. E proprio in questo ultimo Congresso, sul palco allestito sulla piazza di Genola, il 13 settembre pronuncia il suo ultimo discorso pubblico, dal nostro giornale efficacemente definito “Il canto del cigno”, nel quale - come testimoni oculari ci hanno riferito - con slancio profetico e con le braccia spalancate, nuovo Mosè sul monte, dichiara pubblicamente di voler offrire la vita per impetrare il dono della pace. Un particolare, questo, che non può non evocare un passo delle sue "linee programmatiche" contenuto nella prima sua lettera alla diocesi: «Amerò il mio Clero, amerò il mio popolo, amerò con predilezione quelli che Gesù predilesse, i fanciulli, i poveri, gli afflitti; tutti amerò nella carità di Cristo, con i sentimenti del cuore, le parole, le opere, e, occorrendo, col sacrificio della vita».

Non è fargli un torto affermare che Soracco non abbia una particolare predilezione per lo scrivere: lo confermano i suoi contemporanei, che invece sono unanimi nell’affermare che piuttosto è un “espositore brillante, improvvisatore di eccezionale originalità, predicatore forbito”. Già gli alunni del seminario di Chiavari testimoniavano che «si stava incatenati alla sua fluente poderosa parola» e proprio in questa sua preziosa facoltà lo colpisce il cancro, alla gola, che ne demolisce la forte fibra ad appena 52 anni, troncando i suoi progetti pastorali e gli impegni, già in agenda, di una seconda visita pastorale e dell’indizione di un sinodo. Muore l’11 marzo 1943, tra dolori indicibili ma anche nella costernazione di un’intera diocesi che piange il “vescovo buono”, lasciando a chi lo assiste, quasi volontà testamentaria, la raccomandazione: «Vi raccomando, figlioli miei, amatevi tra di voi, amate la Chiesa, amate il Papa e specialmente amatevi tra voi Sacerdoti». A portarlo a braccia sono i suoi giovani di Azione Cattolica, che prima di calarlo nella tomba, "staccandosi dall'occhiello il distintivo, lo inseriono fra la croce e la bara, perché anche nella tomba il Vescovo della Gioventù avesse un ricordo del loro amore".

(3 - continua)