La devozione di monsignor Soracco per il “prete santo di Piovani” (2ª parte)

Conte Don Giuseppe
don Giuseppe Conte

Il rettore del seminario Marchesa Rossi dispone che quel giorno don Giuseppe Conte celebri a Fossano «ad ora meno disagiata», cioè di buon mattino (perchè in quel tempo vige per tutti l'obbligo del digiuno a partire dalla mezzanotte), ma poi lo accompagna a Piovani ed entrambi partecipano al pranzo che la nonna ha organizzato in casa, cui ha invitato una cinquantina di persone, facendolo cucinare dalla signora Gallo (sicuramente il miglior mestolo della zona). La buona donna, che la Fedeltà definisce «tutta cura e tutto cuore» verso il nipote sacerdote, non fa economie neppure sul menù, stando almeno al cronista, così dettagliato nei particolari da far sospettare che egli stesso sieda tra i commensali. È forse proprio con riguardo alla sua salute fragile, se il giovane prete per la consueta "gavetta" viene destinato proprio alla parrocchia di Piovani, in aiuto al priore Salomone che ben lo conosce, che ha avuto una parte non indifferente nella nascita e nella coltivazione della sua vocazione e che, sottolinea sempre La Fedeltà, «lo tratta con tutto il più riguardoso affetto», che da come detto non sembra proprio essere prassi abituale di ogni canonica.

Nel 1930 don Ballatore passa dal ruolo di cancelliere vescovile a quello di economo e poi di canonico prevosto della Cattedrale e don Conte fa le valigie da Piovani per ricoprire il posto in Curia, che si è reso così vacante, vedendosi contemporaneamente affidare l'incarico di cappellano delle Benedettine e di cerimoniere vescovile: tre "servizi" che sembrano fatti per lui e che tengono conto delle limitazioni che la salute gli impone. Le molte ore libere che gli restano, il buon don Giuseppe non le trascorre in ozio: insegna liturgia e matematica in seminario; confessa ogni giorno in cattedrale, salute permettendo e soprattutto di buon mattino; trascorre infine molto tempo in adorazione, nella quiete della chiesa del monastero, pensando di essere così lontano da occhi indiscreti, mentre è sotto osservazione di quanti sono sempre più ammirati della santità silenziosa di quel prete malaticcio, che, non potendo far altro, si consuma nella preghiera.

Di quanto nel suo lavoro d'ufficio sia «intelligente, coscienzioso, laborioso, esatto» se ne accorgono sia i due vescovi a contatto dei quali lavora, sia quanti tra clero e laici frequentano la Curia. Tutti concordemente affermano che «in lui bellamente si accoppiavano naturale dignità e cortesia a cordiale gentilezza talchè qualunque persona o ecclesiastica o borghese non partiva da lui senza la più favorevole impressione». E, poiché in genere “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (ex abundantia cordis), sono anche molti ad attestare con quanta passione, sentimento e preparazione si dedichi alla predicazione nei giorni festivi, attingendo sicuramente alla sua profonda spiritualità, tutta intrecciata di sofferenza fisica, intensa preghiera e premurosa disponibilità verso tutti. «Che bell'anima era quella! e tutti i sacerdoti lo sapevano», dice di lui mons. Soracco, che più di altri deve aver intuito qualcosa della profondità e della ricchezza interiore di questo suo prete, tanto da affermare, senza mezzi termini: «Era un santo!».

La sua salute precipita a inizio giugno 1940 per «un male che dapprima appariva men grave e che invece lo trasse dopo una decina di giorni alla tomba». Ad assisterlo sul letto di morte alcuni confratelli e, soprattutto, il vescovo Soracco in persona, nelle cui braccia spira il 13 giugno: non ha ancora 36 anni di età e appena 12 di messa. È ancora quest'ultimo a ricordare, di quei momenti estremi, le ultime parole sussurrate da don Conte: «Non credevo che fosse così dolce il morire» e ancora «Dal paradiso pregherò tanto per il mio vescovo». Evidentemente, Soracco fa molto affidamento su questa promessa di intercessione, soprattutto quando è lui stesso inchiodato dalla malattia e dal suo letto di dolore ripete: «Io prego tanto don Conte, perché era davvero un santo. In paradiso invertiremo le parti: lui farà il vescovo e io sarò il suo cerimoniere». Non possiamo quindi che essere grati al vescovo Soracco per averci fatto incontrare questo santo prete diocesano, prima a noi sconosciuto, nonché a don Minero e don Baravalle per aver preservato dall'oblio le sue ultime parole. Anche nella stessa sua Piovani, ci dicono, queste brevi note biografiche sono servite a riaccendere un ricordo sbiadito, tanto che ci vien da proporre, come cosa buona, di dare definitiva sepoltura ai suoi resti mortali nel cimitero di questa frazione, facendoli riposare vicino al priore, don Salomone. Perché, si sa, i santi è sempre meglio averli a portata di mano.

(2 - fine)