Mercoledì 10 marzo si è tenuto nei locali del Seminario vescovile a Fossano il primo, interessante incontro del ciclo “Diritti, dove?” organizzato dal Tavolo Intercultura del comune di Fossano per approfondire il tema dei diritti in modo ampio e, si potrebbe dire, universale.
In un periodo storico così faticosamente caratterizzato dal conflitto Russo-Ucraino, l’incontro di mercoledì ha offerto l’opportunità di alzare lo sguardo e ampliare la visione su un’altra situazione emergenziale, quella sulla rotta balcanica, contribuendo a una presa di coscienza di fatti e a mettere in prospettiva anche quanto sta per accadere, col protrarsi delle offensive russe in Ucraina, in Polonia e in tutti i paesi Europei in cui giungeranno i rifugiati.
Abbiamo intervistato i tre relatori per raccontarne le esperienze a tutto tondo, anche al di là di quelle strettamente connesse alla rotta balcanica
ELENA LUPICA – LA LUNA DI VASILIKA
Elena Lupica è una giovane cooperante di 26 anni dell’associazione “La luna di Vasilika” operante in Grecia, Paese in cui, dal 2015, si sono riversati milioni di rifugiati provenienti, prevalentemente, da Iran, Siria e Afghanistan. La sua è una scelta di vita accolta con determinazione a partire dalla partecipazione a un progetto a Scutari per approfondire il tema della vendetta di sangue in Albania. È in quell’occasione che, giovane studentessa, la sua strada si scontra con la rotta balcanica che transita dal Montenegro.
Decide dunque di andare in Grecia, nel cuore di questa rotta e ci arriva in un giorno difficile: il 28 febbraio 2021 quando il governo ellenico pose fine a un progetto durato 2 anni per ospitare alcuni rifugiati in hotel. Quel giorno, senza preavviso 7mila persone si erano ritrovate senza un tetto sulla testa dopo anni di precarietà. Una partenza in salita, insomma, che ha dato il via a un percorso che, da allora si è protratto senza interruzioni.
L’ondata migratoria che ha investito la Grecia nel 2015 è stata la più grande della storia recente. In un solo anno 800mila persone entrarono in Grecia. Un numero impressionante se si pensa che, complessivamente, in Europa furono circa un milione le richieste di asilo.
Le norme Europee di fatto bloccano i richiedenti asilo nel paese di primo ingresso in UE fino all’ottenimento dello status di rifugiato. Questo mette i migranti in una condizione di stallo che dura oltre due anni e il governo del Paese in ginocchio dal punto di vista burocratico.
“Il primo progetto della Luna è stato a 16 km da Salonicco, dove veniva fornito un aiuto di prima emergenza come la distribuzione di generi alimentari, di vestiti e si davano lezioni di inglese nel campo di Diavata – ci racconta Elena -. Poi, nel settembre 2019 a Corinto, nel Peloponneso viene costruito un campo profughi definito di transito in cui risiedono persone che hanno attivato la loro pratica burocratica per richiedere l’asilo. Nei campi si dorme, si mangia e ci si lava. E basta. È quindi importante svolgere delle attività e quindi da marzo del 2020 siamo lì. Purtroppo abbiamo subito qualche ritardo per il lockdown, ma siamo operativi da marzo. Si è preso in affitto un edificio ed è stato adibito a scuola di inglese, tedesco e informatica. Poi il centro è cresciuto con altre attività come il corso di cucina che è molto apprezzato perché è dinamico e vi partecipano anche donne che, magari, non parlano inglese”.
Elena ci racconta che dalla presentazione della pratica all’ottenimento dello status di rifugiato possono passare tra i 2 e i 3 anni nei quali le persone sono come congelate nei campi profughi.
E quello che sta accadendo in Italia ora? “Il mio timore è che prima o poi gli italiani si ricordino di essere fondamentalmente slavofobi. Già con i primi arrivi dall’Albania si era assistito a una corsa alla solidarietà che presto si era trasformata in intolleranza. In ogni caso i contesti sono molto diversi. La Grecia ha una serie di forti problematiche al suo interno. Bisogna ricordare che quando c’è stato il boom migratorio era devastata dalla crisi del debito e dai memoranda della Troika. Il tasso di disoccupazione era altissimo e non c’è mai stata una rete dal basso che legasse il tessuto sociale unendo i greci ai migranti. C’è stata da subito una netta distinzione tra greci e stranieri in entrata. In questo momento in Italia è il contrario. Purtroppo, però, in Europa non esiste un sistema di ricollocamento di chi ha lo status di rifugiato e le regole sono diverse in ogni Paese. In questo momento dovremmo riscrivere completamente tutto il sistema dell’accoglienza in Europa. Basti pensare che, una volta ottenuto lo status di rifugiato, la persona ha 90 giorni per dimostrare di avere una casa, un lavoro stabile, una sostenibilità altrimenti torna nel Paese di ingresso. Nel caso della rotta balcanica, quindi, torna in Grecia e questo compromette ulteriormente il sistema”.
Il sistema esistente, stando a quanto ci ha raccontato Elena, prevede il controllo iniziale, ma poi manca nella capacità di assorbimento tendendo a far ritornare tutti nell’illegalità.
GIULIA MARRO
Quella di Giulia Marro è un’esperienza davvero a tutto tondo. Sebbene rispetto a Elena Lupica, Giulia abbia intrapreso un percorso che la porta ad alternare molto le missioni all’estero a quelle in Italia, l’impressione è che, come Elena, dovunque si trovi sia destinata a fare del mondo in cui vive un luogo di incontro e conoscenza. Il suo impegno, che all’estero si è concretizzato in molti luoghi e in molte vesti, da ultima quella con Medici senza frontiere, a Cuneo diventa partecipazione alla vita cittadina sempre nel nome dell’integrazione.
La sua presenza all’incontro le viene, nello specifico, da un’esperinza ateniese all’Hotel City Plaza, albergo dismesso occupato da circa 400 persone. In quella circostanza Giulia, insieme a una sessantina di giovani volontari, era intervenuta a portare aiuto agli occupanti per la maggior parte rifugiati afghani e siriani. Un’esperienza molto significativa perché: “si trattava di un’autogestione. Quello di cui noi non parliamo mai è il diritto a spostarsi. Io sono stata libera di partire andare in Grecia a fare la volontaria ad esempio, mentre queste persone non erano libere di muoversi. Facciamo sempre riferimento a chi migra come a qualcuno che ha dei problemi, non ci fermiamo a pensare ai diritti.
Quella in Grecia è una delle esperienze di Giulia, antropologa e vera globe trotter che dalla Francia dove si è recata in giovane età, ha iniziato a girare il mondo toccando quasi tutti i continenti: dalla Grecia all’Etiopia ad Haiti: “Cerco sempre di alternare momenti in cui sto in giro per il mondo e altri in cui torno qui a ricaricarmi di energie e motivazione e a sensibilizzare le persone con cui entro in contatto” ci racconta.
Da un anno Giulia lavora per Medici Senza Frontiere, quella che era fin dall’inizio la sua massima aspirazione professionale conscia: “che pochi mesi non bastano a cambiare una situazione, ma mi danno la possibilità di conoscere nuovi contesti. A marzo del 2021 con Msf sono stata in Iraq e poi ad Haiti”. Della situazione di Haiti racconta di un paese lacerato dalla mancanza di tutto: “Spesso nella comunicazione si parla di violenza, di gang, ma il problema è più complesso. Gli Stati Uniti hanno fondamentalmente imposto il Primo Ministro ritardando, di fatto, le elezioni democratiche. Gli Haitiani non sono d’accordo e c’è dunque una grande tensione, ma come sempre il problema parte dal fatto che l’imperialismo occidentale mantiene i suoi retaggi con il controllo degli altri Paesi. La stessa cosa anche in Iraq ci sono Paesi ancora legati al colonialismo francese o americano e si sta facendo di tutto per mantenere il controllo”.
Paesi drammaticamente divisi e feriti, ma al ritorno a casa Giulia non trova, al contrario, un Paese equilibrato: “In Italia mi sconvolge la diffidenza rispetto agli Africani. Si sente dire che sono incivili, che non stanno alle regole, ma qual è l’esempio? La violenza che nei loro Paesi è stata perpetrata da noi con il nostro colonialismo. Il sistema violento è stato instaurato allora ed è semplicemente continuato. A scuola non si studia la recente colonizzazione purtroppo”.
Dal quadro dipinto di Giulia Marro emerge la fotografia di un cuneese razzista senza saperlo e senza volerlo, dilagante anche tra chi è tendenzialmente accogliente: “L’ideale sarebbe che tutti avessimo l’opportunità di andare per un po’ all’estero a vivere da stranieri nella terra degli altri, allora forse capiremmo e saremmo più tolleranti”.
Razzismo dilagante anche nelle affermazione di chi giudica in questo momento i rifugiati Ucraini più meritevoli di accoglienza di altri perché, come spesso si sente dire, in fuga da una guerra vera: “Ad Haiti non c’è la guerra, non è riconosciuto come paese di guerra, ma dove ero io c’erano morti tutti i giorni. Ho temuto di più ad Haiti che in Iraq, perché ad Haiti non si capiva chi fossero i bersagli. Gli attacchi in Iraq erano mirati. La differenza è che si sente parlare di più di alcune situazioni e meno di altre. Ad esempio si sente parlare poco dei bombardamenti dei Turchi in Kurdistan”.
In questo momento Giulia è in Italia ad è impegnata nel comitato del suo quartiere proprio nel creare una rete tra i cuneesi “storici” e quelli di nuova generazione, come lo stesso Afshin, parrucchiere in corso Giolitti: “L’italiano che va all’estero viene visto che un grande, una persona che vuole migliorare se stessa. Uno straniero che arriva in Italia è invece visto con diffidenza”.
Il messaggio più significativo che lascia Giulia è forse proprio questo bisogno di reciprocità nella mobilità internazionale delle persone, nel potersi muovere per cercare il proprio posto nel mondo.
AFSHIN ALLINVAND
Afshin fa il barbiere a Cuneo. È giovane, spigliato, parla italiano in modo mediamente corretto. Afshin è iraniano e quello che è e che ha oggi lo ha conquistato sul campo in una storia di grandi difficoltà.
In Iran Afshin era barbiere, ma non solo. Era anche un attivista dei diritti. Era ateo, lo è ancora, e questo nel suo paese non era concepibile. Cantava di diritti, di donne libere e non condizionate dagli uomini, altra cosa non accettabile.
Afshin era, quindi, in pericolo e costituiva un pericolo per i suoi cari. Spesso in famiglia gli avevano chiesto di smettere di esporsi di rinunciare a sperare in un Iran più democratico.
“Ad un certo punto – racconta Afshin – ho deciso di andarmene”.
L’idea di Afshin non era affatto quella di uscire dall’Iran nella clandestinità. Ha preso contatto con una organizzazione e comprato un passaggio su quella che era stata presentata come una nave: “Mi era stato detto che non avrei dovuto pensare a nulla, che sarei salito a bordo di una nave con letti e cibo, che in poche ore sarei arrivato e poi sarei potuto andare in Norvegia”. Una raffica di bugie. Afshin viene portato di notte al porto, ci sono tre persone dall’accento russo o ucraino che sotto minaccia di armi lo fanno salire su un piccolo natante insieme ad altre persone: “Non sapevo quanti fossimo. Non si vedeva niente. Hanno tirato fuori le armi e ci hanno imposto di salire, ci hanno chiusi in una stanza e il viaggio è durato una settimana”.
Afshin racconta di un viaggio da incubo terminato sulle coste siciliane. Da lì il trasferimento in un centro di prima accoglienza dove inizia il secondo incubo: “Per fortuna sono rimasto pochi giorni perché anche una volta a terra sono stato portato in una stanza con tanti materassi dove mi davano un panino al giorno ed era tutto molto sporco e pieno di insetti”.
Da Lampedusa Afshin viene trasferito a Cuneo e da qui a Frabosa Soprana e inizia a cercare attivamente un lavoro: “Ho subito iniziato a cercare un lavoro, ma Frabosa è un paese piccolo e non c’erano possibilità. I soldi che avevo mi bastavano ad andare solo un paio di volte a Mondovì con i mezzi e non riuscivo a trovare nulla”.
Dal 2016 Afshin resta a Frabosa per circa18 mesi, poi, finalmente, la svolta. A Cuneo trova lavoro come barbiere in corso Giolitti. È l’inizio di una nuova vita da cuneese, quella da cui parte l’impegno per la sua comunità: “Per me è molto significativo essere qui in Italia. Prima della pandemia avevo trovato anche un lavoro in Norvegia, ma ho scelto di rimanere qui. Io vedo nell’Italia un modo di vivere democratico come dovrebbe essere dappertutto. Quando ci sono dittature è tutto come una cella in galera, tutto è sotto controllo, bisogna essere invisibili. Qui mi sento molto libero e mi sono sentito un passo più avanti rispetto a prima. Ci sono altre persone che combattono come me e me ne sto rendendo conto. Prima non lo sapevo perché in Iran sono tutti spenti. Qui ho conosciuto persone come me che combattono per i diritti e questo mi rende più vivo e più attivo”.
La storia di Afshin, che si opera per il quartiere di Cuneo in cui risiede diventandone cittadino attivo, è stata raccontata anche nel docufilm “King Hair. Cinque storie dalla provincia del mondo” nato in collaborazione con il progetto Sai Cuneo (Sistema di Accoglienza e Integrazione).