Questa settimana l’Ufficio Famiglia delle diocesi di Cuneo e Fossano offre all’attenzione dei lettori de “La fedeltà” gli ultimi due racconti circa l’esperienza della paternità: il contributo è quello di un papà che ha scelto l’adozione e di un altro che ha perso un figlio.
(Potete leggere qui la prima e la seconda parte).
4 - Essere padre di figli con disabilità e in affidamento
“ESSERE GENITORE DI TANTI FIGLI È UN DONO GRANDE”
“Sono diventato papà a 25 anni – racconta L. – quando in famiglia è arrivato il nostro primo figlio R., un ragazzo di 12 anni affetto da Sindrome di Down. Tre mesi dopo mia moglie ha dato alla luce F., al quale è stata immediatamente diagnosticata una patologia cardiaca. Nel giro di pochi mesi, quindi, la mia vita è stata stravolta, perché ho dovuto iniziare a prendermi cura di questi figli fragili e bisognosi di tante attenzioni.
Agli occhi dei miei genitori e delle persone che mi stavano accanto l’accoglienza di R. era stata una scelta azzardata, soprattutto perché avveniva poco tempo prima la nascita del nostro primogenito. Col senno di poi, invece, R. è stato una risorsa preziosa: nel lungo periodo in cui io e mia moglie ci siamo alternati in ospedale con F., questo ragazzo ci ha aiutato a non concentrarci solo sui nostri problemi e sulle nostre paure, ma a pensare anche a lui e alle sue necessità. Negli anni successivi, poi, ho avuto la fortuna di diventare papà di altri 3 figli e di accogliere in casa diversi bambini e ragazzi, ognuno con la propria storia.
A distanza di 20 anni posso tranquillamente affermare che l’accoglienza in famiglia non è solo fatta dai genitori, ma è un dono grande anche per tutti gli altri componenti del nucleo, che accettano di condividere spazi, tempi, oggetti con quelle persone che per un periodo più o meno lungo della propria vita hanno bisogno di un sostegno e di fare esperienza di famiglia. Ecco, quindi, che l’essere genitore di tanti figli è un dono grande, soprattutto essere papà di quelli che necessitano di più attenzioni: mi riportano all’essenza della vita, a quali sono le cose semplici e importanti da vivere ogni giorno, e a mettere da parte tante preoccupazioni e paure per il futuro che a volte mi fanno vivere male il momento presente. Essere padre mi fa maturare ogni giorno come persona e mi aiuta ad uscire dal mio egocentrismo”.
5 - Essere padre quando muore un figlio
“CONTINUO A VIVERE NELLA BURRASCA. GUARDO A GESÙ, ANCHE LUI HA SPERIMENTATO IL BUIO”
“Il momento in cui sono diventato papà – ricorda S. – è stato il più estasiante della mia vita: gioia, emozioni profonde, indimenticabili. Mai come allora ho avvertito nella mia coscienza di appartenere alla vita e di essere un portatore di vita. Abbiamo cercato di realizzare una famiglia semplice, luogo di affetto, solidarietà e perdono. La nostra gioia di coppia è giunta all’apice quando i nostri figli hanno scelto di formare la loro famiglia, di continuare a sognare e progettare nuove strade improntate ai nostri valori condivisi e vissuti.
Nel nostro cammino però è sopraggiunto un brusco imprevisto: un brutto male ha colpito mio figlio maggiore nel pieno della sua vita. Le nubi si sono addensate. Pensieri tenebrosi dominavano la mia mente. Nel mio animo si alternavano tenui speranze ed angosce struggenti. Lo sforzo di mio figlio di minimizzare, di nascondere a volte anche di ironizzare con la malattia, era vanificato delle sue condizioni fisiche che peggioravano costantemente. La morte, anche se arrivata in poco tempo, non è giunta improvvisa. Mio figlio ha avuto il grande dono di poterla affrontare e preparare fino all’ultimo passo decisivo. Il mio abbraccio di commiato è stato profondo, intenso, intimo: un momento di scambio di fede e di speranza per i nostri reciproci cammini; una consegna di ultime volontà, di intenti, di testamenti. Circondato dalle persone che ha amato, se n’è andato. Mi sono ritrovato con il mio ragazzo su cui avevo investito tutta la mia vita, inerme e abbandonato tra le mie braccia. Proprio lui, una forza della natura, un vulcano di creatività, una volontà che superava le sue forze; proprio lui esanime, lì tra le mie braccia. Un dolore non narrabile. Ho sentito cedere le mie gambe. Ho avuto la sensazione di precipitare in una voragine che inghiottiva tutte le nostre vite, tutto il passato, le cose grandi e belle realizzate assieme, i nostri progetti, i nostri affetti, le nostre speranze, tutto...
Ma dovevo reagire. Dovevo attaccarmi alla mia vita e alle vite di chi restava. Un’impresa che alla mente era chiara, ma nell’anima non trovava sufficienti energie. Mi sentivo, assieme alla mia famiglia, vittima di un’ingiustizia. La mia fede che confidava in Dio premuroso e provvidente traballava. Un grande senso di sconfitta, di prostrazione di solitudine permeava la mia anima. Negavo e non accettavo la nuova realtà in cui mi trovavo. Nei momenti di solitudine ho iniziato a dialogare con mio figlio che sentivo presente, sempre accanto a me. Gli chiedevo di aiutarmi a capire ed accettare. Il percorso non è ancora concluso. Continuo a vivere nella burrasca. Guardo a Gesù. Anche Lui ha sperimentato il buio. Ha gridato il suo abbandono e la sua solitudine. Egli, con mio figlio che è sempre con me, mi sta indicando una strada (ancora tutta da percorrere): la strada della Pasqua promettente luce, pace, vita piena”.
(3 – fine)