Il Vangelo testimoniato con la vita tra i poveri d’Etiopia

Intervista a Maria Pia Ramonda, fossanese, da 50 anni consacrata nel Movimento contemplativo missionario Padre de Foucauld (città dei Ragazzi) di Cuneo

Ramonda Maria Pia

Amano definirsi “sorelle”, le consacrate del Movimento contemplativo missionario Padre de Foucauld (città dei Ragazzi), di cui fa parte da 50 anni Maria Pia Ramonda. Fossanese doc, dopo aver speso i primi vent'anni in comunità a Cuneo, operando per i poveri ed emarginati del nostro territorio, è partita per l'Etiopia “diventando un po' africana”, come ha detto lei stessa intervenendo alla parrocchia del Salice per la veglia dei missionari martiri il 26 marzo (in attesa di ripartire per l’Africa al termine di un periodo di riposo in Italia). Opera a Shashemene, città con oltre 300 mila abitanti, a sud del paese, in una mensa per bambini denutriti e da supportare nell'assistenza medica (“degli scheletri, che non avrei mai pensato così se non li avessi visti con i miei occhi”). Oltre all'impegno di visitare i carcerati e i malati di lebbra, per una precisa “scelta degli ultimi” fatta dalla sua comunità. In un paese aggravato, quasi sempre, dalla guerra.

In questi 30 anni della sua presenza in quel paese, che cosa è cambiato, se è cambiato, a diversi livelli (sociale, religioso, o politico)?
Forse da un punto di vista scolastico; prima a scuola ci andavano in pochi e le bambine per niente. Adesso ho visto un miglioramento. Anche se io sono entrata in una classe delle scuole del governo dove c'erano circa un centinaio di studenti. Una cosa pazzesca! Le scuole dei salesiani, invece, tengono un buon livello, ma non tutti riescono a frequentarle. Perciò se da una parte vanno a scuola (e questo è stato un miglioramento), dall'altra la qualità di questa viene a perdersi, anche per interruzioni provocate dalla guerra.

Queste guerre da dove nascono?
Uno dei problemi più grandi dell'Africa è quello dei conflitti tribali; adesso, per esempio, c'è una tregua, ma continuano le lotte. L'appartenenza alla propria tribù passa davanti a tutto. Poi l'attuale presidente, votato anche regolarmente, continua a fare i conti con il governo passato, che non vuole mollare il potere. Inoltre, e non lo dico come giudizio, bisogna ammettere che lì non sono pronti per la democrazia. È ancora un percorso lungo da fare.

È quindi difficile far passare dei messaggi cristiani di perdono, di riconciliazione?
Sì, è difficile. E sono cristiani! La maggior parte ortodossi di tradizione. Però questo senso tribale viene prima di qualsiasi altra cosa. Ci sono poi anche musulmani, protestanti, e una minoranza cattolica.

I leader delle varie fedi spendono parole per ottenere riconciliazione?
Il nostro cardinale cattolico sta facendo molto in questo senso. A livello di leader si riuniscono pure. Però poi alla gente questa riconciliazione non entra.

Per partire come missionari oggi che cosa è davvero necessario aver acquisito?
Intanto bisogna considerare che ci sono diversi tipi di missionari (consacrati, volontari...). La comunità cui appartengo è contemplativa e missionaria. La preparazione avviene dunque nella comunità stessa. Andiamo con un certo stile di missione che non è di tutti: quello di andare con la gente, non da colonizzatori per portare la nostra cultura, ma di accogliere la loro, e studiamo la lingua. Sì, va studiata, anche se laggiù ce ne sono 83! Però per noi, la cui missione si fonda sulle relazioni, è molto importante conoscerla. Noi poi cerchiamo di essere presenti in un posto, dando tempo alla preghiera e all'aiuto ai più poveri, all'amicizia. E quindi la preparazione avviene stando in comunità e in missione.

Voi missionari portate cibo, ma anche la Parola di Dio e il messaggio cristiano?
Sì, ma non tanto a parole. Per esempio, abbiamo la mensa dei bambini che sono quasi tutti musulmani; noi poniamo loro degli interrogativi con la nostra vita di persone bianche, che dall'Europa vanno ad aiutarli nella più assoluta gratuità. I musulmani poi sono molto impressionati perché non ci sposiamo e non abbiamo figli. Noi aiutiamo chi ha bisogno senza mettere etichette religiose, entrando in relazione con tutti. E non andiamo lì per convertirli. Una volta in missione c'era questa idea. La conversione può poi anche avvenire quando vedono come viviamo e si chiedono perché. È lì che vogliamo arrivare. Per esempio, accogliamo i malati di lebbra; vedere un bianco che fa quello, li sconvolge. Dobbiamo gridare il Vangelo con la vita, come diceva padre Charles de Foucauld.

Poi c'è l'altra faccia della relazione, quella dei missionari martiri, uccisi. Avete avuto dei problemi?
In Etiopia no, anche perché aiutiamo i loro bambini, a cui vogliono molto bene. Ne hanno infatti tanti, ma non riescono a dargli da mangiare.  Ci accolgono perché vedono il lavoro che facciamo con i malati e ce ne sono grati.

C'è qualcuno tra la gente comune che si offre pure per aiutarvi?
In Etiopia, purtroppo, guai se un uomo fa un lavoro manuale! I pesi li portano le donne. E questo tipo di cultura fatica a cambiare, anche per chi accetta il cristianesimo. Il Vangelo dovrebbe arrivare a purificare la cultura, però non è facile. Le donne con cui lavoriamo, dunque, sono davvero così povere che le paghiamo. Le aiutiamo perciò in un modo dignitoso.

Come si può essere missionari qui in Italia?
Per me è importante lavorare sull'essere. Non dico che non siano altrettanto importanti i programmi, le attività pastorali, ecc. però, come cristiani, come cattolici, dobbiamo essere credibili, nelle famiglie, nel lavoro... E questa credibilità avviene soltanto se abbiamo qualcosa dentro, se non siamo dei cembali vuoti. La gente è colpita dalla nostra testimonianza, che parte dal Vangelo, non tanto dalle nostre parole. Sono colpiti da quello che siamo, che grida più forte di quello che diciamo. Dando anche del tempo; noi consacrate in missione facciamo l'adorazione eucaristica o il ritiro, altrimenti io non starei spiritualmente in piedi. Però questo vale anche per un qualsiasi cristiano. E la Parola di Dio? Se non la leggiamo e mettiamo in pratica, come facciamo a essere testimoni dei nostri ambienti? Forse facciamo troppo, fermiamoci. Abbiamo paura di guardarci dentro, del silenzio, di convertirci. Che invece farebbe bene anche al nostro fisico.