Il bello delle democrazie è, tra l’altro, quello di far tornare puntualmente alle urne i cittadini perché possano esprimere liberamente la propria adesione ai programmi politici proposti. Capita anche nelle “democrature”, con governi autoritari, ma con la differenza che lì si sa già come andrà a finire, come è regolarmente capitato in Russia e ancora recentemente in Ungheria, per non parlare della Cina.
Il bello dell’Unione Europea è che la democrazia a 27 si esprime con elezioni frequenti e ogni volta a Bruxelles si interrogano sull’andamento del consenso al faticoso processo di integrazione europea.
Incassato in proposito il buon risultato delle elezioni tedesche a settembre 2021, tocca adesso trattenere il fiato per l’esito delle elezioni presidenziali francesi del prossimo 24 aprile.
Il 10 aprile i risultati del primo turno – quello in cui tradizionalmente si vota “con la pancia”, rinviando al secondo turno il voto “con la testa” – ha visto salire sul podio tre forze politiche: “La Republique en marche” di Emmanuel Macron (27,8%), il “Rassemblement national” di Marine Le Pen (23,1%) e “La france insoumise” di Jean-Luc Mélanchon (22%), fuori dal podio socialisti, gollisti e verdi.
Al ballottaggio del secondo turno andranno, come nelle scorse elezioni presidenziali, Macron e Le Pen: il primo, liberal-conservatore orientato in favore di una “sovranità europea”; la seconda, di estrema destra appena temperata, nostalgica della sovranità francese e ostile ai progressi dell’integrazione europea. L’esito del voto sarà quindi molto importante anche per il futuro dell’Unione Europea e della ripresa in corso del motore franco-tedesco. Ne dipenderà anche l’evoluzione dell’alleanza francese con l’Italia, come disegnata dal Trattato del Quirinale del novembre scorso.
Come prevedibile, l’aggressione della Russia in Ucraina ha pesato sulla campagna elettorale e ancora di più peserà sulla nuova configurazione dell’Unione Europea che si va delineando. Vi concorrono forze politiche nazional-populiste, come quelle di Orban in Ungheria, di Le Pen in Francia e della Lega nel nostro Paese. Da queste, accusate di essere filorusse, si sta dissociando, dopo la guerra in Ucraina, il governo della Polonia, rompendo l’intesa tra i componenti della “banda di Visegrad” che, oltre Polonia e Ungheria, comprendeva anche Slovacchia e Repubblica ceca.
Si tratta di uno smottamento importante che vede prendere le distanze dal progetto di integrazione europea, dopo la secessione del Regno Unito, anche l’Ungheria e obbliga altre forze nazionali di destra a chiarire le proprie posizioni e le loro recenti “conversioni” al progetto europeo, come nel caso della Lega in Italia.
Una vittoria, ad oggi improbabile ma non impossibile della Le Pen, ridarebbe fiato ai movimenti nazionalisti, mettendo a rischio il futuro dell’UE; un voto “con la testa” consentirebbe a Macron di mantenere aperta la strada verso una più stretta integrazione europea: dipenderà anche dal livello dei consensi ottenuti e dal contributo che vi daranno gli elettori della sinistra radicale di Mélanchon.
Ma il gioco delle libere democrazie non finisce qui. A Bruxelles si guarda anche con qualche apprensione agli esiti delle prossime consultazioni elettorali in Italia: primi segnali arriveranno già dalle elezioni amministrative di giugno, quelli più importanti dalle elezioni politiche fra un anno, sempre che non siano anticipate. Il governo Draghi mantiene saldamente il timone in direzione dell’Unione Europea, pagando i costi delle sanzioni ma anche beneficiando dei miliardi in arrivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) nella convinzione, diversamente condivisa dalla maggioranza, che la pace non abbia prezzo.
Franco Chittolina