752 giorni in mano ai terroristi nel Mali, tenuto in catene e sotto minaccia armata: padre Pier Luigi Maccalli ha una storia di sofferenza e paura, ma anche di perdono e speranza.
Era a Fossano venerdì 27 maggio e ci ha raccontato la sua esperienza in quei due anni di prigiionia.
Era il 17 settembre 2017 ed era nel suo studio all’interno della missione in Niger, paese nel quale viveva da 11 anni quando sentì un rumore provenire dall’esterno: “Pensavo ci fosse qualcuno che voleva dei medicinali perché nella missione avevamo anche un deposito di farmaci. Sono uscito fiducioso e mi sono trovato accerchiato da uomini armati. Mi hanno fatto salire su una moto e mi hanno portato via. Mi hanno subito portato in Burkina Faso e poi, 17 giorni dopo in Mali”
Da quel momento passano oltre 2 anni tra dubbi e sofferenze: “Non mi vergogno a dire che ho urlato e ho pianto. Ho pensato: mio Dio, perché mi hai abbandonato? Poi ho pensato che quelle catene fossero la mia croce e che ho umanizzato il mio dolore. La strada del perdono è stata molto lunga. Ho spogliato i miei carcerieri di tutti gli aggettivi con cui li potevo descrivere e li ho considerati semplicemente come uomini. Mi sono reso conto che sono a loro volta ostaggi di un pensiero, di un condizionamento che li spinge a combattere una guerra violenta e ingiusta”.
Una guerra violenta, quella che si combatte in molti paesi africani, ma la violenza pervade anche il nostro quotidiano: “Da quando sono tornato dalla prigionia faccio molta fatica a sentire parole violente. Credo sia fondamentale che ognuno parta dal disarmare la parola, dal privarla di aggressività perché le parole violente fanno male e possono passare alle mani e diventare schiaffi o pugni e se le mani sono armate, omicidi”.
L’articolo completo su La Fedeltà in edicola mercoledì 1 giugno.