L’algoritmo d’oro e la torre di Babele, i dilemmi etici dell’Intelligenza artificiale

L’ambiente, il digitale, la pervasività dell'informatica... sono i nuovi temi su cui sta riflettendo il professor Giovani Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, giurista, ministro della Giustizia nel primo governo Prodi

Giovani Maria Flick

Dopo aver tratteggiato nel libro “Persona Ambiente, Futuro. Quale futuro?”, il rapporto tra ambiente e profitto, in cui ha evidenziato con forza che c’è bisogno di un’economia che rispetti l’uomo e il pianeta, ora è in libreria un nuovo volume di Giovanni Maria Flick - curato insieme alla figlia Caterina - “Il mito dell’informatica. L’algoritmo d’oro e la torre di Babele” che parla del rapporto tra informazione e informatica.

Professore, c’è un filo rosso che li lega?
Un filo non solo rosso, ma che ora rischia di esprimere sempre di più il colore del sangue, delle innumerevoli vittime delle catastrofi ecologiche, come da ultimo quella della Marmolada. Sono due temi intrecciati tra di loro nella sinergia tra ecologia e tecnologie digitali. Due mondi percepiti spesso in modo congiunto. Ma guardando al futuro si deve avere una consapevolezza e una percezione più attente non solo sul tema ecologico (che lentamente si va formando), ma anche su molti altri, rispetto alle conseguenze di una ‘civiltà digitale’ che rischia altrimenti di sovrapporsi alla ‘civiltà umana’ in una prospettiva (o meglio una illusione!) di onnipotenza.
Non c’è ombra di dubbio sul fatto che tecnologie molto sofisticate abbiano apportato dei benefici irrinunciabili in numerosi ambiti. Ho però la sensazione che se non ci rendiamo conto tutti (ai diversi livelli) della necessità di nuove regole, nuovi principi, la ‘civiltà delle macchine’ potrebbe soppiantare quella umana con conseguenze gravissime. Il rischio di una seconda torre di Babele è dietro l’angolo. Come, d’altra parte, quello del nuovo diluvio universale per il saccheggio della natura da parte nostra.

La pandemia ha dato una grande accelerazione alla digitalizzazione anche nel nostro Paese. Lei sottolinea, però, che manca la consapevolezza generalizzata di una cultura scientifica e informatica. Quali pericoli corriamo per questa carenza?
Stiamo passando da uno stress ad un altro, persino peggiore. Dall’inizio del secolo abbiamo avuto un’escalation drammatica: il terrorismo globale del 2001; la crisi economica del 2008; la pandemia del 2019 e ora la guerra, la carestia, la siccità. Le tensioni lasciateci dalla pandemia sono legate non solo alla sofferenza, alla crisi, alla paura degli individui, ma anche alla mancanza di una diffusa consapevolezza del fatto che i diritti inviolabili vanno di pari passo con i doveri inderogabili.

Rischiamo di diventare “vittime” del mondo digitale?
Sull’ambiente abbiamo iniziato a capire (tardi e male) che il saccheggio della terra è un grave errore. Io vorrei che questa consapevolezza – ora limitata per lo più ad un contesto di specialisti -dei problemi dell’informatica e delle sue applicazioni si estendesse a molte altre persone, (primi fra tutti i politici), come è avvenuto per l’ambiente. Quella consapevolezza dovrebbe emergere ora anche rispetto al rischio del passaggio da individuo a persona. Come persone ci muoviamo all’interno di tre dimensioni: le relazioni con gli altri; la dimensione del tempo (passato, presente e futuro); quella dello spazio. Tre ambiti che già con la pandemia sono stati spesso ridimensionati, ma che con uno sviluppo incontrollato del digitale potrebbero venire gravemente sacrificati, se non addirittura completamente cancellati. I famosi occhiali del ‘metaverso’ mi preoccupano solo a pensarci.

La Rete apparentemente sembra un ambiente libero dove ciascuno si può esprimere. Ma lo è veramente? Contribuisce alla crescita della democrazia?
Intanto non è vero che è tutto gratis; il prezzo può essere la perdita della nostra identità. La difesa della democrazia passa anche attraverso la necessità di trovare un equilibrio tra l’uguaglianza di tutti e l’unicità e la diversità di ciascuno, che però non può diventare “esclusione del diverso”.
L’art. 9 della Costituzione rappresenta un punto di riferimento importante con il suo richiamo esplicito al passato e al futuro. Ma rappresenta anche un riferimento essenziale allo sviluppo della cultura, come chiave per comprendere il rapporto tra passato e futuro. Come lo è la scuola con il diritto di tutti ad accedere ad essa (si pensi all’esito non soddisfacente della DAD durante la pandemia); e con la prospettiva dello ius scholae accanto allo ius loci e allo ius sanguinis per la cittadinanza.

Nel suo libro mette in guardia dal pericolo che i grandi social diano vita al metaverso cancellando così l’universo. Siamo ancora in tempo per cambiare rotta?
Non dobbiamo perdere altro tempo. Nella nostra civiltà le tecnologie digitali sono talmente sofisticate che stanno sostituendo la persona in compiti complessi. Il timore è che in un prossimo futuro si cerchi di sostituirle alla persona anche nelle funzioni più̀ connaturate alla sua identità̀ e coscienza; penso ad esempio alla c.d. “giustizia robotica”.

Un libro scritto con uno sguardo alla Costituzione e uno alla Bibbia. Perché?
Mi ispiro alla saggezza della Bibbia. Ci parla della Torre di Babele, che possiamo paragonare allo sviluppo eccessivo della tecnologia con il suo richiamo al “linguaggio unico” nella piana di Ur; mi sembra riflettersi nell’odierno linguaggio digitale: unico fra uomo e uomo, fra uomo e macchina, fra macchina e macchina.
La Bibbia ci parla del rapporto tra profitto e ambiente con riferimento al saccheggio della natura che ci ha portato alle porte del diluvio universale. Nel libro cito perciò più volte l’articolo 9 della Costituzione, che fino ad ora è stato visto in modo riduttivo: tutela del passato, tutela del futuro e tutela attraverso la cultura.
Il punto di volta è capire attraverso la chiave del passato cosa ci riserva il futuro e cercare di individuare la necessità di regole e la loro elaborazione per consentire la convivenza nel contesto attuale.

Chiara Genisio