Fredo Olivero, prete di frontiera da sempre dalla parte degli ultimi

Originario di Centallo, ha studiato in seminario a Fossano. Mons. Pellegrino lo volle a Torino perché si occupasse di immigrati e rom. Nel 2022 ha festeggiato 80 anni e 55 di ordinazione sacerdotale

Olivero Don Fredo

Centallo è terra di grandi sacerdoti, da mons. Michele Pellegrino, a don Stefano Gerbaudo, a mons. Derio Olivero... Tra loro c’è don Fredo Olivero, volto storico dell’Ufficio Pastorale Migrantes dell’Arcidiocesi di Torino, tra gli esperti più apprezzati e riconosciuti su queste tematiche, che il 25 giugno ha festeggiato 55 anni di ordinazione sacerdotale e un mese fa, il 6 ottobre, ottant’anni di vita. Prete di frontiera, è da sempre “dalla parte degli ultimi”, con una forte originalità, un’autonomia di pensiero e di azione che lo ha sempre connotato, fin dai tempi degli studi in Seminario a Fossano, quando decise di dare l’esame di Stato al Liceo classico anziché privatamente, con gli altri seminaristi.

La sua formazione “fidei donum” per 5 anni a Verona nel Seminario per l’America Latina (Studentato della Cei) gli ha permesso di conoscere, attraverso vescovi e formatori di quella scuola, nel periodo del Concilio Vaticano II, una chiesa povera, “con grandi contraddizioni, ma profondamente umana”. Di qui il forte richiamo al lavoro in America Latina: partì infatti in un primo tempo per il Brasile, poi l’incontro col vescovo Pellegrino lo convinse a restare a Torino, proponendogli di occuparsi prima della parrocchia a Nichelino come viceparroco, poi a Torino nella chiesetta di legno di corso Taranto, poi degli immigrati e dei rom. Dal 1978 al 1982 la collaborazione con il sindacato - per il quale si è occupato di formazione, di collegamenti internazionali e dei lavoratori stranieri - gli ha permesso di incontrare il mondo del lavoro soprattutto manuale. “L’incarico internazionale mi ha aperto la vita ad incontri diversi fuori Italia, tutti interessanti e utili ora nel servizio ai migranti: Palestina e Siria, Polonia di Solidarnosc, Brasile di Lula, Nicaragua e Centro America, Argentina. Ho sempre creduto nella necessità di far nascere movimenti di solidarietà dal basso - ancora oggi seguo progetti in America Latina e Africa, Egitto, Senegal - così come movimenti pacifisti, Ghandi è il mio riferimento. Per molti anni sono stato dipendente del comune di Torino dove ho fatto nascere e guidato l’Ufficio stranieri e nomadi. Poi, obbligato dal vescovo a licenziarmi passai alla Sanità come cappellano fino alla pensione”.

Una decina di anni fa l’arcivescovo Nosiglia, nel modificare gli assetti dell’Ufficio Migrantes, ha affidato a don Sergio Durando, laico, il ruolo svolto per oltre 15 anni da don Fredo, che da allora si occupa ancora dei rom. È inoltre rettore della chiesa San Rocco, diventata un vivace centro di attività culturali, di dialogo interreligioso e di accoglienza, ed è presidente di “Spazio Genitori”, un centro di ascolto e sostegno per famiglie e coppie in difficoltà.

Don Fredo, tu hai sempre affiancato il servizio sacerdotale a un altro lavoro. Perché?
Perché ho sempre voluto conservare la libertà evangelica dei figli di Dio (il mio motto è: “Io obbedisco, ma secondo la libertà dei figli di Dio, secondo il Vangelo”) e questa difficilmente si mantiene se non sei autonomo, oltre che nella testa, anche nella vita economica. Già al tempo degli studi seminarili decisi di dare l’esame di stato al Liceo classico per poter scegliere più liberamente. Ordinato sacerdote, dopo 5 anni di “tempo pieno” pastorale in tre parrocchie, mi sono sempre mantenuto con un lavoro dipendente: ho fatto il dopo scuola a Collegno, poi il bibliotecario a Nichelino e infine il responsabile dell’Ufficio Stranieri e Nomadi del Comune di Torino. Me lo chiese Novelli, sindaco comunista e la cosa fece un po’ scalpore, ma quel lavoro mi consentì di conoscere molte situazioni. Sono anche stato assistente religioso in ospedale e infine direttore dell’Ufficio Migranti della diocesi, quest’ultimo senza stipendio… Non lo ritengo giusto perché evangelicamente non si può imporre ad un credente nel Dio di Gesù Cristo, neanche ad un prete, di essere suddito. Fui obbligato a licenziarmi dal Comune per assumere quell’incarico all’ufficio migranti che nessuno voleva. Comunque, l’autonomia lavorativa ed economica che mi ero procurata (don Fredo è poi andato in pensione grazie alle attività lavorative precedenti: “Lavoravo già da ragazzino in agricoltura, e con i libretti a posto”) mi ha permesso di tollerare queste situazioni.

Dell’Ufficio Migranti ti sei occupato per oltre 15 anni svolgendo un lavoro immenso.
Sì, nel tempo la gestione di quell’Ufficio è diventata una cosa mastodontica, che ci dà anche l’idea della rilevanza in termini quantitativi che oggi rivestono le comunità di immigrati qui in Piemonte. Nel ’73 – quando mons. Pellegrino mi chiese di occuparmi degli immigrati - i primi che arrivavano erano soprattutto donne dalla Somalia ed Eritrea e uomini dalla Nigeria, poi è stato il turno dei Nordafricani, quindi l’Est europeo (prima gli albanesi mentre oggi invece il primato è dei romeni; questi ora sono più di 50.000 soltanto in Provincia di Torino e più di 100.000 nel resto della Regione). Di fronte a questi numeri non si può fare finta di niente, avere paura e rinunciare all’accoglienza, a una vera politica di integrazione.

Ora, da dieci anni, sei rettore della chiesa di San Rocco, che è diventata il punto di riferimento per la vita di fede di tante persone, italiane e straniere.
La Comunità di San Rocco è quello che fin da giovane ho cercato di costruire: un punto di riferimento dove le persone che cercano Dio si incontrano in libertà e cercano di vivere i valori in cui credono. Il posto è per tutti, a qualsiasi fede e religione si appartenga. Ringrazio quanti credono in questo progetto.
Ritengo che la Chiesa debba ripensare la pastorale in funzione della presenza di tanti immigrati di fede cattolica. Le parrocchie non sono ancora capaci di farli partecipare alle iniziative della pastorale.

San Rocco è anche un punto di riferimento per il dialogo interreligioso.
Sì, abbiamo in atto un’esperienza molto interessante, con ebrei, musulmani e altri cristiani. È possibile lavorare insieme; lo è stato anche in tempi in cui il clima è stato particolarmente rovente perché c’era chi soffiava sul fuoco.
Io penso che nelle chiese cristiane si dovrebbe puntare sulla formazione di “missionari ecumenici”. I seminari svuotati e le università teologiche dovrebbero diventare luoghi di convivenza e formazione al dialogo perché siamo una cosa sola anche se le Chiese resteranno divise per un po’: strade diverse che mirano all’unità. Le strade diverse sono tutte buone: quello che conta è la fede non le religioni. E le fedi sono in un unico Dio a cui tutti facciamo riferimento.