Il ghetto di Terezín tra musica e parole

Emozionante serata a Sant'Albano con l’ebraista Corradini e un quartetto di archi

Foto di Costanza Bono

Quando le sole parole non servono a far comprendere come gli ebrei sopravvissero agli orrori della Seconda guerra mondiale, si devono far parlare le emozioni. Affidandole alla musica, per esempio, per rievocare il ricordo di migliaia di queste persone, che la eseguivano “suonando strumenti ad arco e fiati nel ghetto di Terezín, nella Boemia occupata dai nazisti, a 60 km da Praga”. Strumenti “che si erano portati con sé, tra i 20 kg di effetti personali, ammessi quando vennero internati”. Una storia di rivendicazione della propria identità culturale (ebraica) e di propaganda (nazista), narrata con passione e competenza, venerdì 27 gennaio (Giorno della memoria), nel salone delle scuole medie a Sant’Albano, dalle parole di Matteo Corradini (ebraista, scrittore e docente). Le cui riflessioni sono state intervallate dalla lettura delle poesie di Ilse Weber e accompagnate da musiche composte nel ghetto di Terezín (eseguite dal quartetto d’archi formato da Andrea Calvo alla viola, Nicola Dho e Valerio Quaranta al violino e Lidia Mosca al violoncello). Proponendo una scaletta di brani che hanno dato vita allo spettacolo “Non ti ho protetto da nulla. Due violini dal ghetto di Terezín”. Violini originali di allora, s’intende, che sono stati suonati nella serata. “Dalla fine del 19° secolo, infatti - ha spiegato Corradini, - era attivo un laboratorio di strumenti musicali fondato dalla famiglia Zalud e portato al successo dal discendente Pavel. Poi gli strumenti, nel 1942, vennero confiscati dai nazisti, che li consegnarono agli ebrei perché li suonassero nel ghetto”. Strumenti di cui in seguito alcuni sono stati recuperati dallo stesso Corradini, che ha scelto però di non farli diventare pezzi da museo, ma “di farli suonare in formazioni musicali differenti”. Perché, con la loro autenticità, siano vivi, capaci di trasmettere quei sentimenti di allora; passione, tristezza, paura, ma forse anche speranza. Quella che l’alto numero di artisti, internati nel campo di concentramento boemo, cercavano di non spegnere né per sé e né per gli altri, “attraverso centinaia di concerti eseguiti davanti al proprio popolo, così come davanti alle SS”. Momenti che furono “vitali per gli ebrei, mentre ai nazisti servivano per dimostrare la (falsa) immagine della buona condizione di vita del ghetto. E diffondendola attraverso i filmati consegnati agli uffici di propaganda del Reich in Germania”. “Oggi salvare uno strumento di allora significa dare vita ai musicisti del ghetto” ha sottolineato Corradini. Scegliere, ascoltandoli, di dimostrare che la musica non è solo passatempo, ma al contrario un’occasione di arricchimento della propria forza interiore, come lo fu per gli artisti ebrei di allora. “Per questo - ha concluso - sono molto grato a chi, come in questa serata, ci ha permesso di farlo, facendoci sentire il loro suono”. E, manco a dirlo, egregiamente.