Militari intossicati alla mensa della “Dalla Chiesa”, processo al via

Sotto accusa il cuoco e due responsabili dell’azienda barese Ladisa Ristorazione

Caserma Dalla Chiesa

Quel giorno alla caserma “Dalla Chiesa” il menù prevedeva polpettone, ma a regalare qualche brutto quarto d’ora a una trentina di militari, si sarebbe scoperto, erano bastati i coltelli. Sarebbero dovuti essere disinfettati in cucina, invece erano stati solo lavati e rimessi a posto.
Non una precauzione sufficiente, sostengono i Nas e lo stesso Esercito, per evitare il proliferare del Campylobacter jejuni. Il batterio è, al pari della salmonella, uno dei più comuni nell’ambito della ristorazione: provoca gastroenterite, febbre, nausea, vomito. Il genere di sintomi che i soldati del 32° Genio guastatori avevano accusato tra il quarto e il quinto giorno dopo l’intossicazione: “Un caso da manuale” assicura il tenente colonnello Gianluca Rosati del Nucleo Veterinario di Supporto Areale Nord, l’autorità sanitaria militare competente per gli accertamenti. Diversi intossicati erano finiti in ospedale, due di loro si sono ora costituiti come parti civili nel processo contro il cuoco, M.B., e due dirigenti dell’azienda barese Ladisa Ristorazione, cui era appaltato il servizio mensa. Si tratta del legale rappresentante G.D.P. e di A.S., responsabile della sicurezza alimentare. Per i tre imputati le accuse sono di commercio di sostanze alimentari nocive e lesioni personali colpose.

Individuare il “colpevole”, ha spiegato il tenente colonnello Rosati, non era stato difficile. Sette dei nove ricoverati, al momento degli accertamenti, erano infatti positivi al Campylobacter jejuni. All’origine della tossinfezione si è arrivati constatando che il pranzo del 25 luglio 2019 era stato l’unico pasto comune tra loro, nei giorni subito precedenti. In cucina non c’erano disinfettanti e ciò ha rafforzato l’ipotesi, poi verificata dagli inquirenti, che il batterio si trovasse sui coltelli. A parte questo erano state riscontrate varie irregolarità, tra cui il fatto che “sui banconi deputati alla somministrazione dei cibi i termometri non erano funzionanti. Gli operatori quindi non potevano sapere se la temperatura fosse superiore a quella di sicurezza”. Mancavano indicazioni sugli allergeni, sulla formazione del personale e sull’identificazione di alcune materie prime presenti nelle celle frigorifere, date in gestione alla ditta. La procedura di abbattimento termico, infine, non era conforme: era presente un congelatore, ma non un abbattitore.
A veicolare il Campylobacter sono sovente l’acqua e la carne avicola. Per questo erano stati eseguiti accertamenti, con esito negativo, anche sull’acqua raccolta in caserma. “Gli utensili per la lavorazione del cibo erano nostri, li passavamo alla ditta a inizio lavori compilando un verbale”, ha riferito il militare che svolgeva allora la funzione di supervisore in mensa. L’addetto al vettovagliamento ha spiegato che un’analoga “spartizione” riguardava i cibi: “Siccome era un catering misto, fornivo le derrate alla ditta che si occupava della preparazione. Quel giorno c’era da preparare un polpettone, ho preso carne fresca e l’ho consegnata al cuoco”.
L’istruttoria proseguirà nell’udienza già fissata il 13 giugno.