Da sessant’anni a Capo Verde per aiutare lo sviluppo

Il racconto di Padre Ottavio e Giacomino Fasano

padre ottavio e giacomino fasano

Nel 1963 padre Ottavio Fasano viene nominato segretario del Centro missioni estere dei Frati Cappuccini piemontesi. Nel 1965 compie il suo primo viaggio nell’arcipelago capoverdiano. Sono passati 60 anni e lui a Capo Verde è stato ed è ancora motore propulsore della realtà solidale.

Lo incontriamo a Fossano, nella sede dell’Amses, l’associazione missionaria solidarietà e sviluppo, nata nel 2000. Insieme a lui c’è Giacomino, il fratello minore di padre Ottavio che in tutti questi anni lo ha sempre affiancato. “Per me è un regalo enorme avere non solo un fratello di fede, ma anche un fratello di carne in questi progetti”, ha detto il frate, mentre Giacomino specificava che “lui è un creativo, sogna. Io anche, ma con i piedi per terra. Dice che sono il suo ‘freno’, ma a quanto pare sono un freno rotto, perché alla fine fa sempre ciò che si è messo in testa”.

E di cose ne ha davvero fatte tante. “Quando sono arrivato la prima volta a Capo Verde i neonati morivano. Morivano perché il cordone ombelicale veniva tagliato con un coltello arrugginito. Da cristiano, da uomo, si può rimanere indifferenti? Non per me. La Chiesa non sono i preti e i frati, sono il popolo di Dio. Mi sono detto: devi muoverti, e farlo in modo organizzato e attento. Ho coinvolti professionisti della salute, tecnici, meccanici, muratori. Varie professionalità”.

Così sono partiti i primi progetti, dal lebbrosario (ora chiuso perché fortunatamente la lebbra non è più una malattia diffusa nell’Arcipelago) alle case per i più poveri, alle scuole per l’infanzia. “Dopo qualche anno ci siamo detti: è necessario che diamo vita a un gruppo di laici professionisti, gente di buona volontà che senta la disponibilità al servizio ai poveri e agli altri. Allora lì è nata l’Amses. Che ha fatto un suo percorso già discretamente lungo”.

Il pensiero di fondo di padre Ottavio, condiviso dal fratello Giacomino e anche alla base del lavoro di Amses è semplice quanto rivoluzionario per Capo Verde: “Io arrivo da una società che alla fine è privilegiata. Qui più nessuno muore per strada. La società in cui sono cresciuto mi ha detto: attraverso il lavoro produttivo puoi fare ricchezza per te e per il tuo Paese”. Un concetto che a Capo Verde non era molto diffuso. “Io ho cercato di farli uscire ‘fuori’ dal circolo dell’aiuto e dell’elemosina - spiega -. Quindi è vero che siamo partiti ad esempio dagli asili. Ma poi abbiamo dato vita a progetti di attività, più produttivi”.

Un esempio? La vigna sorta sull’isola di Fogo dove nel 2009 sono state messe a dimora 100.000 barbatelle. E poi la cantina, dove si producono e imbottigliano vino e distillati. Lì la terra è arida, asciutta, “ma se si lavora con il Governo per poter portare l’acqua allora in tanti coltiverebbero le vigne. Avrebbero un lavoro e un guadagno”. E ancora: “I pescatori hanno delle barchette di 7-8 metri. Con quelle vanno nell’oceano e pescano quel che gli serve per campare la giornata, anche perché il 70% delle famiglie lì non ha il frigo e il freezer. Ma in quell’oceano, di fronte alle loro isole, arrivano i grandi pescherecci americani, giapponesi, cinesi che sovvenzionano il governo locale”. Amses sta sviluppando un progetto per aiutare questi pescatori: ha realizzato un caseggiato in cui possono riposare, ci sono servizi igienici, possono riporre l’attrezzatura. Giacomino, che è un esperto meccanico, ha studiato un attrezzo che aiuta i pescatori nel trasporto delle barche dentro e fuori dal mare. Ma il sogno di padre Ottavio è che un giorno questi pescatori facciano un “cambio di passo” e si riuniscano, e insieme comprino barche più grandi, certi che tutto il pescato sarà comprato.

La strada per lo sviluppo è questa: non l’elemosina, ma dar vita a quello che è possibile su quel territorio e con quella realtà umana e culturale e ambientale. Allora così li aiuti. Allora così generi movimento e economia”.

L’arcipelago di Capo Verde è stato colonia portoghese fino al 1975, poi è diventato Stato indipendente. “Ma la mentalità, gli usi, la cultura sono molto lunghi a cambiare - commenta Giacomino -. Qualche trasformazione inizia ad esserci: una delle cose che rende più ricco Capo Verde per assurdo è l’emigrazione. Ci sono più capoverdiani in America che nel loro Paese d’origine: dall’estero mandano soldi alle loro famiglie, in molti si stanno costruendo le case in cui pensano di andare a vivere una volta in pensione, quando potranno tornare a Capo Verde. Anche noi in qualche modo abbiamo contribuito: abbiamo portato in Italia 12 mila colf capoverdiane, tutte con un impiego, molte di loro ora sono sposate con italiani”.

Ma non basta guadagnare all’estero e poi tornare. Non può essere l’unica soluzione. Bisogna lavorare nel proprio Paese, per il proprio Paese. Ecco perché Amses ha puntato tanto sulla formazione: ha portato giovani capoverdiani a studiare Medicina a Verona per poterli poi impiegare nell’ospedale costruito (sempre da Amses) a Fogo; ha attivato una scuola enologica in collaborazione con l’istituto Umberto I di Alba; ha dato l’opportunità ad altri  di studiare all’Alberghiero di Mondovì.

Si può anche lavorare di più sul turismo che anche Capo Verde ha, più culturale, più di attenzione. “La bellezza, la diversità dell’Arcipelago possono smuovere un certo tipo di turismo. Il clima è magnifico. Abbiamo creato strutture in cui si può soggiornare e che danno lavoro ai locali”. Su tutto questo si può lavorare, anche perché l’Arcipelago, rispetto all’Africa, è meno complesso, frammentato, più privilegiato e farebbe fatica ad uscire dal sottosviluppo.

“Noi possiamo essere di indicazione e di stimolo. Non basta avere idee, serve professionalità. E noi religiosi non siamo professionisti, ma brava gente. È necessario che se Capo Verde vuole un vero futuro capoverdiano nasca un vero gruppo di uomini e di donne competenti e preparati, che si concentrino sul futuro del loro Paese. Noi da parte nostra siamo presenti per fare la nostra parte”.