RITORNO A SEOUL
di Davy Chou; con Ji-min Park, Kwang-rok Oh, Guka Han, Kim Sun-Young, Yoann Zimmer, Francia, Cambogia, 2022, durata 117 minuti.
In concorso a Cannes 2022 nella sezione “Un Certain Regard”, “Ritorno a Seoul” è la storia di Freddie e del suo viaggio “a ritroso”. Nata in Corea del Sud ma immediatamente adottata da genitori francesi, venticinque anni dopo Freddie si ritrova casualmente a Seoul, a causa della cancellazione di un volo per Tokyo. Accompagnata, e in qualche modo incoraggiata dall’amica Tena, Freddie (una strepitosa Ji-min Park), si pone alla ricerca dei suoi genitori biologici rivolgendosi, non senza dubbi ed esitazioni, all’Hammond Adoption Center. Le regole dell’istituzione sono chiare, si possono inviare soltanto due telegrammi (telegrammi??) ai genitori e nel caso essi non fossero disposti a rispondere, l’agenzia non potrebbe fare altro. Freddie è francese, sa di esserlo, ma è anche coreana e il richiamo delle sue radici diventerà per lei un elemento ogni giorno più importante nel costruire la sua identità. Commovente e delizioso al contempo, il film di Davy Chou è il racconto di formazione di Freddie, l’esistenzialistica ricerca del proprio io da parte di una donna che tenta di capire le ragioni di un affido: è un abbandono o una disperata richiesta di futuro? E che cosa significa amare? La vita della ragazza pencola tra un padre ritrovato con il quale stenta a relazionarsi e una madre biologica introvabile, tutto sembra ruotare tra un senso di distacco e il timore della scoperta. Freddie non vuole veramente amare, relazionarsi, vivere, il timore che l’abbraccio non sia che il preludio di una futura perdita è troppo forte e Davy Chou è grandioso nell’accompagnare lo spettatore lungo questo toccante cammino, sino allo struggente finale.
DALILAND
di Mary Harron; con Ben Kingsley, Barbara Sukowa, Christopher Briney, Rupert Graves, Alexander Beyer, Gran Bretagna, 2022, durata 104 minuti.
New York, primi Anni ’70. Una delle più grandi figure della pittura del ‘900 sta vivendo il suo crepuscolo, tanto più triste perché inconsapevole. Artista votato all’eccesso, Dalì ha sempre sovrapposto arte e vita, facendo, o meglio tentando di fare (dannunzianamente) della propria esistenza un’opera d’arte. Geniale nelle proprie intenzioni e realizzazioni, Dalì verrà progressivamente fagocitato dalla brama di vita, finendo per diventare la caricatura di se stesso. La regista Mary Harron, complice un Ben Kingsley a dir poco strepitoso nei panni del grande artista, mette in scena un biopic dai colori intensi che attraverso lo sguardo terzo di James (Christopher Briney) un giovane assistente della galleria Dufresne che Dalì prende sotto la sua ala protettiva, ci proietta nella corte dei miracoli che circonda l’artista, regalandoci uno spaccato della complessa e inesauribile vitalità del grande artista giunto al termine della propria parabola. Innovatore prodigioso - intuì prima di altri le potenzialità del cinema, così come le ibridazioni tra tecniche e linguaggi diversi - il Dalì artista è costantemente un passo avanti al Dalì uomo e se c’è un pregio nel film della Harron (delizioso soprattutto sotto il profilo scenografico) è qui, nella sua capacità di raffigurare la solitudine di un grande artista, tanto famoso e celebrato quanto abbandonato e incompreso, a cominciare dalla sua compagna e musa Gala (Barbara Sukowa). Tutto il circo Barnum che circonda Dalì, ad eccezione del giovane James, sembra non capire la grandezza di chi ha davanti, una cometa brillantissima che presto si spegnerà.