Don Pino Pellegrino festeggia il 28 giugno settant’ anni di ordinazione sacerdotale. Con i suoi quasi 94 anni (li compie il 2 luglio) è il prete più anziano del clero diocesano fossanese.
Inevitabili gli acciacchi dovuti all’età, ma la mente è lucida, la memoria viva, la frase arguta sempre pronta. Il piglio è quello di chi non si arrende: “Sono vivo - dice -, motivato e impegnato a vivere”, anche se durante l’intervista a volte emerge un po’ di amarezza: “Mi sento un po’ la coscienza critica della diocesi e per questo sono anche un po’ solo”.
Incontriamo don Pino nel cortile del Seminario, all’ombra della chiesa di San Giovanni. Lì c’è un tavolino che nelle belle giornate diventa il suo studio all’aria aperta. A volte, quando la stagione è favorevole, i fossanesi lo possono incontrare su una panchina di viale Mellano.
Ci racconti come è nata la sua passione per la filosofia.
Appena ordinato prete venni mandato come curato a San Lorenzo, era l’estate del 1953 e mi annoiavo a morte. Così chiesi a mio zio mons. Michele Pellegrino, che era vicario generale della diocesi, di poter studiare filosofia all’Università. Dopo un anno a Torino, passai all’Università Cattolica di Milano (dove, tra l’altro, conobbi molto bene padre Gemelli) e mi laureai in Filosofia teoretica con il filosofo Emanuele Severino discutendo una tesi sulla nuova retorica. Nel frattempo, nel 1957 era morto in un incidente don Felice Dompè, docente di filosofia in Seminario. E così nel 1958 venni richiamato a Fossano e presi il suo posto insegnando dalle Medie alla Teologia, i seminaristi complessivamente allora erano un centinaio.
Poi, su invito di mons. Canale, ottenni l’abilitazione in filosofia, pedagogia e didattica per entrare nella scuola statale. Fui docente negli Istituti Magistrali, a Mondovì, Saluzzo e Cuneo. E poi venne l’insegnamento allo Studio Teologico interdiocesano (Sti), aperto nel 1972. Ha dato un grande contributo alla formazione del clero e alla cultura teologica. E invece adesso sento che vogliono chiuderlo e mandare i seminaristi a studiare a Torino, che tristezza!
L’insegnamento è stato uno dei pilastri del suo ministero sacerdotale.
Sì, al mattino insegnavo nella scuola statale, al pomeriggio in Seminario e la sera andavo in giro a tenere conferenze. Poi a metà degli anni Settanta sono andato in pensione dall’insegnamento nella scuola statale e, al compimento dei 75 anni ho lasciato anche la cattedra allo Sti. E mi dispiace, perché sento ancora tanta voglia di vivere. Io punto sui cervelli. È una delle mie piste di lavoro. È importante partire dalla formazione mentale perché il disordine morale nasce dal disordine mentale. Oggi purtroppo la Chiesa ha smesso di pensare. Ma la fede prima di essere professata va legittimata, giustificata.
Oltre che dedicarsi all’insegnamento, in quali comunità della diocesi ha svolto il servizio di prete?
Prima a Cervere, poi San Lorenzo, e, soprattutto, San Biagio, con don Battistino, per 37 anni. In tempi più recenti, la Messa del povero (nella chiesa di San Giorgio, a Fossano). All’inizio c’erano una quindicina di persone che partecipavano, alla fine erano cento e crescevano sempre più. Si era creato un bel clima a livello di relazioni e soprattutto si vedeva una fede incarnata nell’amore dei poveri. La fine, imposta, di questa esperienza ha provocato un grosso danno umano, molti hanno smesso di andare a messa.
Lei è nipote del card. Michele Pellegrino, che influenza ha avuto nella sua vita?
Un’influenza discreta ma potente. Mi ha sostenuto fin da piccolo, non direttamente ma attraverso altre persone. Io sono rimasto orfano di mamma che avevo 7 anni, l’anno dopo entrai nel seminario minore a Cussanio e qui una maestra, su indicazione di mio zio, mi ha fatto un po’ da mamma. E poi mio zio mi ha aiutato dal punto di vista psicologico ed economico, soprattutto nel periodo in cui studiavo alla Cattolica. Abitavo a Senago (piccolo comune a nord di Milano) e in quegli anni ho fatto veramente la fame, tanto che - scrivilo pure! - sono arrivato a pregare che qualcuno morisse. Mi spiego: per la celebrazione dei funerali il parroco invitava il sottoscritto e altri preti a “fare i Giobbe” (così li chiamavano) e li ricompensava con 5 lire. Con questa cifra mi pagavo i trasporti pubblici per diverse settimane. In quegli anni, tra l’altro, ebbi occasione di conoscere anche il card. Montini, futuro Paolo VI, che mi incoraggiò nello studio della filosofia.
Lei è stato ordinato presbitero 70 anni fa, in un altro mondo: come è cambiato il ministero del prete in questo lungo periodo?
Un piccolo episodio. Venni ordinato sacerdote alle 7 del mattino in Cattedrale con altri tre confratelli (don Damilano, don Gazzera e don Scotto). Alle 9 mio padre, contentissimo, mi portò al bar Roma a prendere un caffè. Rientrato in Seminario, venni rimproverato da don Canale “dopo l’ordinazione vai a prendere il caffè, ma sei impazzito?”. Ecco come è cambiato!
Il clero giovane di oggi purtroppo respira l’atmosfera dominante, che è superficiale, epidermica. Si è perso il senso della fatica del pensiero: già il card. Martini diceva “Oggi c’è più bisogno di pensare che di credere”.
Intervista completa su La Fedeltà del 21 giugno