Cinquant’anni di sacerdozio di cui metà spesi come curato in parrocchie. Ed un’altra metà nel ruolo di parroco, prima a Cervere e poi a Genola. Don Marco Tomatis, consacrato sacerdote il 29 giugno 1973 nella chiesa di San Filippo da mons. Giovanni Dadone, si è fatto da sempre voler bene per diverse ragioni. Per le proposte con cui, fin da giovane prete, sapeva coinvolgere spiritualmente altri giovani, che ancor oggi, un po' più attempati, ricordano con gratitudine i bei momenti trascorsi insieme. Per i suoi modi gentili ed affabili, con cui ha potuto instaurare un buon dialogo con la gente, ascoltandola, aiutandola, anche e soprattutto attraverso il sacramento della confessione, cui si è sempre dedicato con amore pastorale. Un amore che lo ha quindi spinto ad essere prete di tutti, e che gli è stato riconosciuto proprio per il suo impegno da parroco, sia a Cervere che a Genola, dove gli è stato conferito rispettivamente il “Premio Bontà” e la “Quaquara d’oro”.
Cosa ti ha spinto a diventare sacerdote?
Sono state le delegate dell’Azione cattolica della parrocchia San Filippo a parlarmi di questo cammino vocazionale, ancora bambino alle elementari. Così, ad un certo punto ho deciso di entrare in Seminario. Quando ho espresso questo desiderio, i miei genitori sono rimasti stupiti e mi hanno invitato a pensarci, lasciandomi però libero nella scelta. Così ho frequentato la scuola Media, poi il Liceo, durante il quale sono entrato un po' in crisi e mi sono chiesto se fosse davvero questa la mia strada. Grazie al confronto con il padre spirituale, attraverso un tempo di riflessione e di affidamento al Signore nella preghiera, ho deciso di proseguire con lo studio della Teologia a Cuneo, nel 1968. Fondamentali sono dunque state le persone e le esperienze che mi hanno aiutato a riflettere e capire.
Hai accennato alla tua famiglia.
La famiglia per me è stata importantissima, proprio perché non mi ha mai ostacolato. E quando sono entrato in Seminario mi sono stati vicini, mi hanno appoggiato, accompagnato - anche nei momenti di crisi - con la preghiera (e questa è una cosa molto bella!).
Quali sono stati i tuoi impegni sacerdotali?
I primi tre anni a Cussanio, con don Rostagno: mi occupavo dei campeggi per i giovani, ero assistente dei ragazzi all’Agraria (continuando con le lezioni di religione) e inoltre ero di servizio a Levaldigi sabato e domenica. Poi a Villafalletto: come curato a tempo pieno, mi occupavo quasi esclusivamente di giovani e ragazzi, avevo molto tempo disponibile per incontrarli, a casa, in famiglia, condividevo insieme a loro i campeggi durante l’intera estate. Sono stati alcuni tra i momenti più belli. Riuscivi ad entrare in sintonia con loro, a dialogare; e, ancora adesso, c’è un collegamento con questi giovani.
Dopo Villafalletto sono stato alla parrocchia del Salice a Fossano, una realtà più difficile. Poi allo Spirito Santo come curato: lì non c’era la Chiesa, ma solo una palestra. È stato un momento bello con don Abrate, che aveva lo spirito missionario. Un modo diverso di essere parrocchia. Anche lì abbiamo iniziato i campeggi con i giovani, così come nella realtà del Duomo, in cui mi sono spostato in seguito, sempre da curato, coadiuvando don Mondino. Che, come vicario generale della diocesi, aveva diversi impegni, per cui mi occupavo della parrocchia: in particolare, dedicavo diverso tempo della mattinata a confessare e a celebrare. Negli ultimi 25 anni sono stato parroco a tempo pieno, 12 anni a Cervere e 13 a Genola. Dall’ottobre dello scorso anno, sono stato destinato come aiuto a Centallo.
A proposito di confessioni, tu hai sempre curato molto questo compito del ministero. Oggi molte persone osservano e giudicano la figura sacerdotale, sempre di corsa, incapace di fermarsi perché impegnata. E allora ti chiedo: chi è, o dovrebbe essere, il sacerdote, più l’uomo dell’essere o l’uomo dell’agire? Come combinare con equilibrio questi due aspetti?
Il problema grosso è questo: essendoci oggi meno preti, a volte siamo più presi dalle cose da fare, piuttosto che fermarci e dare tempo a se stessi e alla gente. In parrocchia, con tante mansioni da svolgere, si è sempre di corsa e il tempo da dedicare alla gente (e alla confessione) diminuisce. Quando invece ero curato, soprattutto in Duomo, avevo più tempo per fermarmi, per confessare. Le persone lo sapevano, venivano, e con loro portavi avanti un dialogo spirituale, che è quello che mi dava gioia più di tante altre cose. Ho sempre dato molto spazio alla confessione e ho visto che questo mi faceva sentire veramente sacerdote.
A questo punto sorge (quasi) di conseguenza la domanda: quanto dovrebbe cambiare, o sta cambiando, il rapporto tra clero e laici? Se è vero che il prete non può dividersi in cento parti, ce ne sono però alcune che potrebbero essere maggiormente affidate al laicato.
Sì, occorre assolutamente dare più spazio ai laici, in modo che il sacerdote possa curare di più la sua parte sacerdotale, che consiste, come ho detto prima, nelle celebrazioni eucaristiche e nel ministero della confessione… Questo è un aspetto importante da ricuperare per noi sacerdoti, altrimenti ci riduciamo ad essere gente che corre.
Quale dovrebbe essere il profilo del prete giovane, rispetto a cinquant’anni fa? Ci vuole una preparazione più specifica che abbracci altri saperi, oltre la teologia?
Bisogna curare la formazione, senz’altro, leggendo anche qualche libro, frequentando gli incontri mensili di formazione e aggiornamento per i sacerdoti. La formazione è conoscenza del mondo di oggi, che nasce anche dall’ascolto delle persone, e chiedendo inoltre aiuto e consiglio allo Spirito Santo su cosa rispondere a determinati problemi che vengono posti. E allora vedi che il Signore veramente ti illumina. Col tempo pure l’esperienza aiuta. I consigli vanno trasmessi con calma e sensibilità, non come imposizioni, ma come proposte.
C’è un ricordo di questi cinquant’anni, che ti fa dire che vale la pena essere prete?
Con i giovani, dagli anni’80 fino a quando sono diventato parroco, si faceva ogni anno un viaggio-pellegrinaggio, con rosario, messa e un momento di riflessione tutti i giorni. C’era un tempo per le visite, a volte (soprattutto quando si sceglievano luoghi mariani, come Fatima) una giornata intera dedicata al ritiro. Momenti forti che tenevano insieme spiritualità e turismo.
Un’altra esperienza significativa è stata la benedizione delle case dei parrocchiani, era il momento in cui potevi incontrare anche chi non sarebbe mai venuto in Chiesa. In casa si dialogava, aprendo la porta, fisica e morale, della propria abitazione e dei propri problemi.