di Justine Triet; con Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner, Antoine Reinartz, Samuel Theis. Francia, 2023, durata 150 minuti.
Da tempo ho ormai rinunciato a farmi delle domande e a tentare di comprendere le ragioni, qualora ci siano, della distribuzione cinematografica italiana, che pare spesso animata da un indecifrabile “cupio dissolvi”. Tuttavia di fronte a certe situazioni il problema fatalmente si ripresenta in tutta la sua evidenza ed è davvero impossibile non “sbatterci” dentro. È questo il caso del film in oggetto, “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, Palma d’oro al Festival di Cannes 2023 e opera di indubbio valore. Qui non si tratta infatti, come peraltro in più di un caso si è obiettivamente verificato, di quello che nell’ambito della critica viene definito come “un film da festival”, ovvero di una pellicola ammirata da uno sparuto nugolo di cinefili persi nelle loro riflessioni meta-cinematografiche ma nel complesso incomprensibile al grande pubblico. Il film della Triet, al contrario, è un gran bel film apprezzato con favore da un vasto e numeroso pubblico in tutta Europa, ma nonostante ciò in Piemonte (una grande regione italiana con 8 province, 4 milioni e mezzo di abitanti e un’estensione di oltre 25.000 chilometri quadrati) il film è distribuito in sette, dicasi sette copie. Davvero, non capirò mai.
Scritto e diretto da Justine Triet “Anatomia di una caduta” è un thriller teso e potente in grado di catturare l’attenzione dal primo all’ultimo minuto. Tutto accade in un attimo, ed è lì sotto gli occhi dello spettatore, ma poi il conseguimento di quella che i greci chiamavano “aletheia” si farà lento e turbinoso. Aletheia è un termine greco che può essere tradotto in modi diversi come “dischiudimento”, “svelamento”, “verità”. Il suo significato letterale è “lo stato del non essere nascosto; lo stato dell’essere evidente” e implica anche la sincerità. Ed è proprio intorno a questo concetto che il film della Triet ruota, una verità che deve essere colta da più parti e che ha a che fare con l’essere sinceri.
La scena si apre sul volto di Sandra Voyter, una scrittrice tedesca che sta rilasciando un’intervista ad una giovane studentessa nello chalet sulle montagne vicine a Grenoble dove vive insieme al marito Samuel Maleski e al loro figlio ipovedente Daniel. La conversazione viene presto resa impossibile dall’alto volume della musica ascoltata dal marito, impegnato in alcuni lavori di restauro al piano superiore. L’intervistatrice lascia la casa di Sandra con la promessa di un nuovo appuntamento ed anche il figlio Daniel esce per una breve escursione insieme al cane Snoop. Non molto tempo dopo però Daniel, di ritorno dalla passeggiata trova il corpo del papà, ormai senza vita, in un lago di sangue davanti alla porta di casa. Presto la posizione di Sandra, che nel frattempo ha chiamato i soccorsi, si fa delicata. In casa non c’era nessuno, i rapporti tra lei e Samuel da tempo erano tesi e la donna in poco tempo diventa la principale sospettata della morte del marito. Che cosa è accaduto? Samuel si è suicidato, o è stato assassinato? E, nel caso, da chi, e perché?
Passo dopo passo, il film scava nel rapporto tra Sandra e Samuel mettendo in luce le dinamiche relazionali dei due, in un percorso che diventa sempre meno una semplice indagine di polizia e sempre più una riflessione filosofica ed esistenziale sui rapporti di coppia, sulle relazioni padre-figlio e madre- figlio (Daniel è ipovedente a causa di un incidente assolutamente fortuito ma di cui Sandra attribuisce la responsabilità a Samuel) e sulle dinamiche familiari. A rendere più complessa la situazione, emergono anche uno dopo l’altro una serie di elementi che rendono sempre più difficile la posizione di Sandra - una certa predisposizione all’alcol, una sua indiscutibile violenza verbale e materiale nei confronti del marito, la presenza di una o più relazioni extra coniugali - rendendo per certi versi evidenti le responsabilità e più chiaro quanto accaduto. La sua freddezza e durezza non le giovano e fanno di lei la principale sospettata di un delitto terribile, soprattutto agli occhi, incerti e spenti ma certo non meno sensibili, del figlio Daniel.
Il film presto diventa un “court drama” con tanto di dettagliate ricostruzioni in aula di quanto accaduto, ma questo non fa perdere alla narrazione intensità e suspense, anche perché la Triet è attenta a concentrarsi sui sentimenti e le emozioni dei protagonisti piuttosto che sull’evento in sé. Il vero fulcro della vicenda è la sfuggevolezza della verità - se mai c’è stata “una” verità - e sui rapporti di forza tra Sandra (una superlativa Sandra Hüller) e il marito Samuel, in un ribaltamento dei tradizionali ruoli di coppia, dove è lei a tradire e ad essere violenta, ed è lui a badare alla casa ed accudire il figlio, ed è lecito domandarsi se a parti invertite avremmo analizzato la vicenda con la stessa lucidità. La verità è qualcosa di scomodo cui spesso non sappiamo adeguarci, tendiamo più facilmente a giudicare che a comprendere e spesso chiediamo agli altri ciò che noi non siamo in grado di dare e di fare. “Anatomia di una caduta” non è soltanto un thriller teso ed avvincente ma è, soprattutto, una dolente e a tratti magnifica riflessione sull’amore e sulla relazione, su quanto siamo in grado di dare agli altri e di ricevere.
Siamo dalle parti del capolavoro, è un film da non perdere.