Pastore con la forza della preghiera, portatore di pace

Missionario carmelitano di origini cuneesi, padre Aurelio Gazzera dal 9 giugno sarà vescovo coadituore nella diocesi di Bangassou (Centrafrica)

Gazzera Padre Aurelio

Riassumere la vita di padre Aurelio Gazzera - classe 1962, carmelitano scalzo originario di Cuneo (con radici fossanesi: il papà era di San Sebastiano dove vivono gli zii) e missionario in Repubblica Centrafricana da 33 anni - significa ricordare i molteplici aspetti in cui si è sviluppata, in quel paese dell’Africa, politicamente fragile e poverissimo.

Un impegno a tutto tondo il suo, svolto con entusiasmo e con amore attraverso diverse iniziative ed incarichi, assunti e succedutisi negli anni: come sacerdote di profonda fede, come operatore di carità, e come uomo di pace. Ha favorito la riconciliazione tra ribelli e popolazione locale nel 2007. Qualche anno più tardi ha ricevuto l’onorificenza di “Ufficiale della Repubblica Italiana” conferitagli dal Presidente Sergio Mattarella, riservata a coloro che si distinguono per atti di eroismo o impegno nella solidarietà e cooperazione internazionale.

Non ha infatti esitato di mettere a rischio la propria vita, quando venne arrestato nel 2019, nel difendere i poveri contro gli sfruttatori di miniere d’oro. Dal 9 giugno sarà vescovo coadiutore nella diocesi di Bangassou (un territorio di 135 mila km quadrati, quasi metà Italia), con la consacrazione che avverrà a Bangui (la capitale) per l’imposizione delle mani del cardinale arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga.

Durante una lunga telefonata, padre Gazzera con grande disponibilità, affabilità (e qualche simpatico intermezzo piemontese!) ci ha raccontato del suo impegno episcopale nella nuova diocesi in cui si è già trasferito e che sta imparando a conoscere dal 4 aprile scorso.

In quanto vescovo coadiutore, quale sarà il suo compito iniziale?

Aiuterò finché ci sarà il vescovo attuale, assicurando, in modo più dolce possibile, il passaggio di consegne, per comprenderle meglio insieme.

Con la sua nomina episcopale, un altro missionario occidentale viene nominato vescovo in Africa: la Chiesa, in Centrafrica e nel resto del continente, ha una compagine prevalentemente missionaria o autoctona?

La Chiesa autoctona è e rimane sempre molto missionaria nella sua connotazione, perché ci sono dei sacerdoti nativi che operano in altre diocesi o in altri luoghi. Inoltre, ci sono anche alcuni vescovi missionari, come me o come quello che adesso sostituirò, ma la tendenza è quella di creare sempre più vescovi autoctoni. Però non è così facile trovare i sacerdoti e formarli per una vita coerente al ministero episcopale, a volte anche per questioni di organizzazione economica, per cui la Santa Sede preferisce nominare, a volte, qualcuno che arriva da fuori.

Ci sono vocazioni per un’adeguata azione pastorale, in una diocesi così ampia?

La diocesi è abbastanza ricca di vocazioni perché c’è un Seminario minore, un bel gruppo di seminaristi al Liceo a Bangui, e altri che sono studenti di teologia e filosofia. I sacerdoti sono 28, che, per una diocesi del Centrafrica, non è un numero piccolo. Altri sono in formazione o stanno aiutando delle diocesi in Francia e in Spagna, per cui la diocesi di Bangassou è tra le più ricche di sacerdoti, e continuiamo a lavorare perché ci siano ancora altre vocazioni. Non mancano inoltre casi di malattia e morte, a volte c’è anche chi abbandona il ministero, ma in generale il clero diocesano è un bel gruppo unito e fraterno. Ci sono 11 parrocchie, con una media tra i 2 e 3 sacerdoti a parrocchia, ma con problemi molto grossi legati alle distanze. Per raggiungerle bisogna prendere l’aereo (così, per esempio, per andare nella capitale) e questo complica ulteriormente la vita.

Nonostante queste difficoltà si può sperare che la Chiesa in Repubblica Centrafricana e in Africa in generale, viva comunque un’esperienza spirituale che può insegnare qualcosa a noi occidentali europei...

Intanto c’è una grande disponibilità alla chiamata del Signore, e penso che questo dovrebbe già insegnare parecchio. Poi c’è una cristianità molto giovane, che piano piano sta imparando a superare le sue difficoltà, per esempio per quanto riguarda la poligamia o la stregoneria. Un’altra cosa bella è la fede vissuta in modo naturale: stamattina, ad esempio, ero a celebrare una messa molto animata, con tante danze e dove tutta la gente canta, pur essendoci la corale (che si limita a guidare l’assemblea).

I vescovi che presiedono le diocesi sono figure di riferimento; lo stesso mons. Juan-José Aguirre Muñoz (nella foto) che andrà a sostituire, non ha esitato a mettere in gioco la sua vita per la gente. Che cosa significa, dunque, essere vescovi in quella nazione, quale testimonianza viene richiesta, e qual è la sua, in particolare, nella diocesi in cui sta per entrare?

Da una parte è una diocesi impegnativa: vengo a dare una mano ad un vescovo “grande” come l’attuale, mons. Aguirre Muñoz, di origine spagnola, dopo 25 anni di episcopato (e da più di 40 anni in questa zona). Il suo è un esempio magnifico: fin dalle prime settimane in cui sono qui mi sento molto contento. C’è una chiesa vivace, con un clero appassionato del proprio compito, e questo è importante. È il ruolo di vescovo quello che mi intimorisce maggiormente, perché è enorme e prende tutta la vita. Qui poi, in particolare, il vescovo è molto vicino alla gente per problemi di qualsiasi genere, perché rappresenta una delle poche autorità che rimangono.

Gazzera Aurelio e Vescovo Juan Jose Aguirre Munoz
Padre Aurelio Gazzera con l'attuale Vescovo di Bangassou Juan-Jose Aguirre Muñoz

Ha chi le ha chiesto come reagirà alle tante difficoltà che dovrà affrontare, lei ha risposto, in modo disarmante, “con la preghiera”: come può, questa, essere di aiuto?

Intanto io rifletto sempre la mia origine spirituale carmelitana; e poi, come dice il vangelo, senza di Lui non possiamo far nulla! Inoltre, la gente qui partecipa molto alle celebrazioni, e, con ritmi e tempi diversi, vive anche la preghiera personale. La preghiera, infine, va intesa soprattutto come abbandono alla volontà del Signore. Infatti, anche se il vescovo deve darsi da fare più di altri, chi agisce è sempre lo Spirito Santo.

Prima di essere vescovo lei è stato anche uomo di pace. Quali sono le qualità morali per essere un conciliatore tra parti diverse?

Non lo so, nel senso che da parte mia, quello che mi ha sempre guidato è stata la preoccupazione per gli altri. L’uomo di pace è quello che mette il bene comune al primo posto, cosa che, soprattutto qui, è un’opera molto pericolosa. Si possono ricevere degli schiaffi o delle pallottole e sappiamo che tanta gente è morta per questo. Però da una parte è quello che il Signore ci chiede, dall’altra è quello di cui la gente ha bisogno, in un paese in cui spesso le prime persone a sparire sono le autorità, e dove i sacerdoti e i missionari diventano un po' l’unico punto di riferimento. Trovare delle soluzioni è un impegno che diventa praticamente una scelta. “Pace” vuol dire innanzitutto crederci, “pace” significa anche avere il coraggio di dire, a chi fa del male, che quello che fa non va bene.

C’è paura nel portare avanti una missione così?

Certo che c’è! Però tra questa e il bisogno di aiutare gli altri, prevale il secondo aspetto. Anche con la preghiera di tanta gente che, in un modo o in un altro, magari senza esporsi direttamente, però ci è vicina e ci sostiene.

Lo stesso cardinal Nzapalainga di Bangui ha scritto un libro sulla sua esperienza personale, dal titolo “La mia lotta per la pace”, in cui ha spiegato che la convivenza interreligiosa in Repubblica Centrafricana è pacifica, mentre sono le forze politiche che vorrebbero strumentalizzare le contrapposizioni. Davvero la situazione è dialogante e collaborativa, anche nella diocesi che adesso guiderà?

Si, c’è parecchia collaborazione. Per esempio, dopo la messa odierna, io e il vescovo siamo andati a salutare l’imam. Ed è anche molto bello l’ecumenismo della carità e della fraternità. Ovviamente ci sono problemi, però fa parte del contesto in cui viviamo avere la presenza di fedi diverse o famiglie con coppie miste. La situazione italiana, in questo senso, è un po' più complicata, e, seppure stia cambiando, rappresenta un impegno grosso.

Papa Francesco, quando aprì la Porta Santa della Cattedrale di Bangui, all’inizio del Giubileo del 2015, disse ai cristiani “di essere testimoni di riconciliazione”. Dopo anni di guerra civile nel paese, sono riusciti ad esserlo?

L’impegno è rimasto in modo molto forte. Per esempio, nel 2021 c’erano di nuovo delle tensioni, ma in quel momento tutti, credenti e non credenti, cristiani e musulmani, hanno fatto molta attenzione ad evitare problemi o accuse reciproche. Problemi che invece avevano complicato molto la vita nel 2013/14. Un altro impegno di cui leggevo in questi giorni: dopo che una barca è affondata in un fiume, con un centinaio di morti, i cristiani delle diverse confessioni si sono uniti per preparare insieme un momento di preghiera e solidarietà con queste famiglie. C’è voglia di ricostruire “ponti”.