Il dado è tratto. Il Rubicone europeo, nel Draghi-pensiero, si colloca tra un futuro in cui la politica sa ancora guardare alle prossime generazioni e la scelta di non scegliere, barcamenandosi tra angusti e perdenti nazionalismi e sofferta dipendenza dalle grandi potenze di oggi: Usa e Cina.
Presentando a Bruxelles il Rapporto sulla competitività, l’ex presidente della Bce e del Consiglio italiano ha usato termini ultimativi: “Siamo arrivati al punto in cui, se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente, la nostra libertà”, ha detto, pur nel suo impeccabile stile british. Per poi aggiungere che siamo di fronte a una “sfida esistenziale”.
Nella sala stampa di Bruxelles, Draghi – raccogliendo parole di elogio e di ringraziamento dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen – ha illustrato il corposo documento che punta, in buona sostanza, a ridare slancio all’economia dei Paesi Ue. Il tutto in un contesto di “cambiamento d’epoca” (clima, digitale, guerra) e con alcune urgenze indilazionabili (energia, ricerca, produzione industriale, difesa…).
Si ha quasi l’impressione che Draghi non si sia limitato a puntare i riflettori solamente sull’economia, il cui rinnovato impulso è necessario per evitare, ha sottolineato, di “diventare più poveri” e di perdere il treno dello sviluppo. Dal suo intervento dinanzi ai giornalisti, e più ancora dal report, emergono almeno tre elementi di più ampia natura politica.
Anzitutto è chiaro il messaggio alle istituzioni Ue e ai governi degli Stati membri: o si cambia, oppure l’Unione europea è attesa a una “lenta agonia”. E la responsabilità sarebbe proprio di chi guida i Ventisette. Servono 800 miliardi di investimenti, da trovare mediante capitali privati e pubblici ed emissioni di titoli del debito comune, piaccia o meno a Germania e soci. Accanto ai soldi occorrono riforme indilazionabili ed estrema capacità di innovazione (il paragone con gli Stati Uniti è impietoso).
In secondo luogo arriva da Mario Draghi una – forse inattesa – attenzione agli aspetti ambientali e sociali di questa necessaria transizione europea. Illustrando analisi e progetti “subito realizzabili” (se ne contano 170 nel Rapporto) è più volte tornato sui temi del lavoro, sul reddito delle famiglie, sul problema dell’invecchiamento demografico, persino sulle migrazioni. Senza tacere i nodi correlati al cambiamento climatico. Un “semplice tecnocrate” non parla così: ci vuole un profilo politico. Di alta politica.
Non ultimo, Draghi ha indicato – guardando soprattutto ai capi di Stato e di governo che prenderanno presto in esame il suo documento – una eventuale strada da intraprendere se qualche leader o governo, per mere ragioni di bottega elettorale, imprimesse l’ennesima frenata all’Unione europea. Egli non ha taciuto la possibilità, diremmo l’opportunità, di ricorrere alle maggioranze qualificate e, addirittura, alle cooperazioni rafforzate. Ovvero chi ci sta, ci sta; altri potranno accontentarsi di restare fermi al palo.
È chiaro che l’ex premier schiaccia il piede sull’acceleratore: anche perché oggi può porsi dalla parte dello studioso, del suggeritore, di chi intravvede vie da percorrere lasciando ad altri la responsabilità di reggere il volante. Draghi parla a un’Europa segnata dalla guerra, attraversata da rigurgiti sovranisti, in uno scenario globale instabile, e in un momento in cui il motore europeo – Germania-Francia – è imballato. Senza trascurare il fatto che le stesse istituzioni Ue, che dovrebbero guidare il cambiamento, richiedono a loro volta riforme e sostegno, che manca, dalle opinioni pubbliche. Eppure – questo il monito – non c’è tempo da perdere. La “lenta agonia” dietro l’angolo dovrebbe far riflettere.
Gianni Borsa (Sir)