Francesco Occhetto (Alba 1996) è scrittore e traduttore. Laureato in Lettere all’Università del Piemonte Orientale e in Scienze Storiche e Orientalistiche all’Alma Mater Studiorum di Bologna, attualmente svolge un dottorato di ricerca all’Università Sophia, insegna materie letterarie nelle scuole secondarie e conduce laboratori di scrittura creativa. Ha curato alcuni libri della scrittrice Adriana Zarri; studioso di letteratura persiana, ha tradotto i maggiori poeti iraniani contemporanei tra cui Ahamd Shãmlu, Garous Abdolmalekian (Trilogia del Medio Oriente: Guerra Amore Solitudine, Carabba 2021) e Sohrãb Sepehri. Si è diplomato attore alla Scuola di Teatro Colli di Bologna, ha ideato e organizza il festival culturale Profondo Umano per la città di Alba; è membro della giuria del Premio Roddi per la poesia e scrive per riviste e giornali locali e nazionali.
A maggio scorso, nell’ambito della rassegna culturale di “Granda in Rivolta”, Occhetto è stato ospite al Vitriol con un intervento sulla poesia persiana che ha stregato il pubblico.
Che cosa rappresenta la poesia per te?
Potrò risultare enfatico ma per me poesia è respiro, come scrisse Rainer Maria Rilke in uno dei suoi indimenticabili Sonetti a Orfeo. È sentirmi animato da un soffio, che mi lega alla Terra e a tutti i suoi abitanti, umani, animali e vegetali. È riconoscermi creatura ansiosa d’infinito, toccata da una vocazione spirituale.
E la traduzione?
Se poesia, come affermò il poeta polacco Adam Zagajewski, è fuoco che passa di mano in mano, il traduttore è colui che tenta di conservarne l’originale aura, mistero, splendore. Il lavoro del poeta ha a che fare con la fiamma viva dell’ispirazione, quello del traduttore con il tentativo di serbarne l’originale intensità di messaggio e forma, reinventandola nella lingua di arrivo, in accordo alla temperie storico-culturale in cui è immerso. Una sorta di apprendistato metamorfico, per usare un’espressione cara a Novalis, di custodia e reviviscenza dei grandi e sotterranei focolai poetici umani: il più alto servizio di disinteressata fedeltà che si possa offrire alla poesia.
Quali gli ingredienti per essere un buon traduttore?
A monte lo studio verticale di una civiltà linguistico-letteraria, la capacità di calarsi a picco in ogni sua sfumatura, assorbendone il più possibile. Ma ciò non basta, poiché una traduzione intesa come puro traghettamento di un testo da una lingua all’altra, quand’anche in totale fedeltà ai criteri filologici, può bastare nell’ambito della comunicazione, del giornalismo, ma non della letteratura e ancor di più della poesia. Poesia è vittoria del significante sul significato, del suono sul contenuto, sempre.
E dunque come farla rinascere senza tradirla?
Cercando di essere poeti a propria volta, scavando dentro di sé uno spazio di accoglienza dell’ispirazione creativa, essenziale per ogni percorso artistico compreso quello traduttivo, immergendosi nelle sonorità dell’idioma di partenza e intercettando le alchimie foniche capaci di renderne unica la pronuncia, ricreandole nel proprio orizzonte linguistico e letterario. Un esercizio complesso, che richiede una prova di totale umiltà e dedizione.
In Iran che peso e che funzione ha la poesia? Quanto incide nel quotidiano delle persone?
Non c’è giorno del calendario persiano che non sia scandito dalla presenza della poesia. Per gli iraniani ogni accadimento della vita, lieto o nefasto che sia, ogni ritualità laica o religiosa è pretesto per leggere, recitare e comporre poesie, con lo sguardo e il cuore sempre rivolti ai grandi autori della tradizione. Penso, su tutti, ad Hafez, il mistico medioevale magistralmente tradotto in italiano da Carlo Saccone, a Sa‘di, a Omar Khayyam. Chiunque vada in Iran potrà constatare quanto sia ancora usanza comune recarsi in pellegrinaggio sulle loro tombe per aprirne a caso i canzonieri e farsi suggerire dai versi un’illuminazione sul presente o sul futuro. Un rapporto con la letteratura quotidiano e al contempo oracolare.
In Iran chi è il poeta?
I poeti della tradizione sono letti con la stessa reverenza riservata ai santi e ai profeti, il cui sapere è ancora oggi balsamo di verità e bellezza. I poeti contemporanei, nonostante una severa censura da parte del regime instauratosi con la Rivoluzione del 1979, godono di pari considerazione quali intellettuali capaci di illuminare il presente anche attraverso un impegno militante circa le questioni politico-sociali più scottanti. In Iran il linguaggio poetico continua a essere assai legato al retroterra mistico-spirituale del Paese e perciò ritenuto sacro. Di conseguenza ogni poeta iraniano sa bene che quanto scrive, al di là dell’orientamento filosofico-religioso, si situa in una tradizione persuasa del valore spirituale della parola.
E dunque che cosa rappresenta la poesia per chi la scrive?
In tale prospettiva, scrivere significa occuparsi delle essenze, dei principi primi e ultimi della realtà, anche in un’ottica verista o di puro impegno civile. La parola, specie quella poetica, mantiene un ruolo centrale nella società persiana, lo dimostra l’immensa quantità di versi scritti negli ultimi mesi da prigionieri politici, attivisti o semplici cittadini, fiduciosi nell’affidare alla poesia e dunque all’umanità ciò che di più prezioso possiedono: il loro grido di disperazione e di speranza.
La tradizione persiana attinge dal sufismo e opta per un approccio univoco, non dualistico. Ci spieghi questo atteggiamento per noi occidentali di non così immediata comprensione?
Il sufismo è il tesoro sapienziale dell’Iran, ciò che mi ha spinto a studiare e amare la meravigliosa cultura di questo Paese. Una via spirituale millenaria, nata in seno all’Islam, secondo cui la meta di qualsivoglia cammino spirituale può esser soltanto l’acquisizione di un cuore puro e di un amore per la Vita senza confini religiosi e identitari. Il suo massimo rappresentante è Jalal al-Din Rumi, il fondatore della scuola dei dervisci rotanti conosciuta in Italia anche grazie alla musica di Battiato. All’uomo occidentale, conoscere e abbracciare il sufismo, richiede una metamorfosi radicale delle proprie strutture intellettuali e teologiche, alla luce di una visione unitaria e olistica dell’Essere, capace di considerare la realtà un Tutto armonico e disarmonico al contempo, ove prendere coscienza di sé come parte integrante e determinante dell’intero universo.
Come riassumere in pochi concetti senso e valore della poesia?
Rendere l’uomo del tutto umano e perciò profondamente divino. Affamato di solitudine e silenzio nonostante gli infiniti commerci che lo attraversano, mendicante di luce a sfida delle tante oscurità che incombono sul mondo. Se ha un senso la poesia, per me è proprio questo: fare bussola all’avventura umana. Indicare le sorgenti sapienziali che ancora esistono, nascoste, nel cuore della Terra. Orientare a mondi altri e non per questo alienanti, tessere rapporti tra visibile e invisibile, suggellare la comunione tra “io” e “Infinità”.
In autunno, per Lo Specchio Mondadori, uscirà una raccolta di opere di grandi poeti iraniani da te curata con Faezeh Mardani.
Sarà un’antologia delle traduzioni svolte a quattro mani negli ultimi anni con la professoressa Mardani, docente di letteratura persiana all’Università di Bologna dove mi sono formato. Una selezione dei più importanti poeti iraniani dell’ultimo secolo che considero momento importante sia per la mia vita professionale sia per il nostro panorama culturale: per la prima volta i lettori italiani potranno attingere al meglio della recente produzione poetica dell’Iran, quasi sconosciuta al pubblico occidentale.
Questa lacuna a che cosa è dovuta?
A una narrazione politica e massmediatica internazionale, ideologicamente impegnata a far emergere solo alcuni aspetti della sua ipersfaccettata cultura. Oltre a essere la nazione guidata dagli imam, nonché sconvolta da un’appassionante primavera di lotta per la libertà e per i diritti sociali, l’Iran è la terra della poesia, della bellezza, della spiritualità. Credo che questa antologia costituirà un’occasione unica per scoprirlo.