Parthenope

Partehenope
Partehenope

di Paolo Sorrentino; con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Gary Oldman, Stefania Sandrelli, Luisa Ranieri, Dario Aita, Daniele Rienzo, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta, Biagio Izzo, Italia- Francia, 2024, durata 136 minuti.

Parthenope ha gli occhi e le stupende movenze di Celeste Dalla Porta di cui seguiamo il percorso dalla nascita alla vecchiaia. La sua storia coincide, in tutto o in parte, con quella della città in cui è nata e a cui deve il nome. Scandita da tappe temporali - 1950, 1968, 1973, 1975 e così via - che sono al contempo tappe esistenziali, la storia si muove per fasi giustapposte, la nascita in acqua, l’acerba adolescenza, la giovinezza, la prima maturità e poi, con una profonda cesura, la vecchiaia.

La protagonista è sempre lei Parthenope, la donna e la città, in una sovrapposizione di ruoli e di situazioni che consentono a Sorrentino di raccontare di una per parlare dell’altra, bella e inafferrabile, bella e irraggiungibile, ma anche sordida e malata, desiderata e agognata, temuta e odiata. Lo sprezzante discorso che pronuncia Greta Cool/Luisa Rainieri, sciantosa diva d’altri tempi che dopo una lunga assenza ritorna a Napoli per una strapagata serata danzante, offre a Sorrentino l’occasione per fare i conti in maniera inequivocabile con la sua città, da un lato rimpianta e dall’altra rinnegata, amata e odiata allo stesso tempo.

Ed anche il film di Sorrentino è così, lo si ama e odia allo stesso tempo, superlativo nel raccontare il prof. Marotta/Silvio Orlando e il suo rapporto con Parthenope/Celeste, intenso nel tratteggiare il personaggio di Greta Cool e della Parthenope/Sandrelli della vecchiaia, melenso, pretenzioso e irrisolto nelle altre parti, con dialoghi che sembrano costruiti con frasi prese a prestito dai biscotti della fortuna dei ristoranti cinesi o le lunghe carrellate orizzontali su corpi di uomini e donne che paiono spot di canottiere e mutande, in un profluvio di primi piani e ralenti tanto inspiegabili quanto inutili in un tentativo, fallito, di consolidare il tenue filo rosso che tiene legata la storia.

Molti sbadigli, troppe ripetizioni (con il brano di Cocciante “Era già tutto previsto” ripetuto addirittura due volte, come se lo spettatore fosse uno scemo totale e il concetto andasse rispiegato) e qualche soprassalto, in realtà dovuto più allo stupore e all’incredulità che al piacere della visione. Poi, qua e là, Sorrentino sembra risvegliarsi e spunta una sequenza degna di nome. Il resto affonda in un lungo brodo senza sapore e con troppe pretese, una noia.