di James Mangold; con Timothèe Chalamet, Edward Norton, Elle Fanning, Monica Barbaro, Scoot McNairy, Boyd Holbrook, P.J. Byrne, 2024, Usa, durata 141 minuti.
New York 1961, o meglio, Greenwich Village, lower west side di Manhattan. Tra le strade strette e contorte di uno dei quartieri più famosi e particolari della città si aggira un ragazzo giunto da poco da Duluth, Minnesota. Si chiama Robert Allen Zimmerman, ma il mondo imparerà a conoscerlo come Bob Dylan. Lì, dove i grattacieli di East Manhattan lasciano il posto a viali alberati e case in mattone rosso ci sono i migliori locali notturni della città dove il giovane musicista è intenzionato a cercare fortuna. Sì, certo, Dylan cerca il successo e un suo posto nel mondo, tuttavia il suo primo passo a New York va in un’altra direzione, è un gesto d’amore e di riconoscenza, una visita in ospedale a Woody Guthrie (Scoot McNairy), star della scena musicale folk e vero e proprio mito agli occhi del giovane Bob.
Diretto da James Mangold (che ha scritto la sceneggiatura con Jay Cocks partendo dalla bella biografia di Elijah Wald “Dylan goes eletric!”) il film è un toccante e intenso ritratto di una delle più grandi icone della musica folk, rock e blues di tutti i tempi che, ricordiamolo, la rivista “Rolling Stones” ha inserito al secondo posto nella lista dei 100 migliori artisti di sempre dietro soltanto ai Beatles e al primo posto in quella dei 100 migliori cantautori senza dimenticare che, tra le decine e decine di riconoscimenti ricevuti spicca il premio Nobel per la Letteratura conferitogli nel 2016.
Racchiudere in un solo racconto l’intera esperienza artistica di Dylan era qualcosa di impensabile e saggiamente Mangold, che ha più volte incontrato il menestrello di Duluth per sottoporgli la sceneggiatura, ha deciso di concentrarsi sugli anni dell’esordio, dal 1961 sino alla sua famosa esibizione al Newport Folk Festival del 1965 e la cosiddetta svolta elettrica. Girato tra New York e il New Jersey, “A complete unknown” è un biopic classico dal solido impianto narrativo con tante canzoni (da “Blowing in the wind” a “Don’t think twice”, da “The times they are A- Changing” a “Like a rolling stones”) e un buon tratteggio dei personaggi (su tutti Dylan/Chalamet e Pete Seeger/Edward Norton) in grado di restituire senza retorica la complessità del personaggio e dell’artista, l’anticonformismo del suo anticonformismo, il suo immenso desiderio di libertà e giustizia, la novità e potenza della sua musica e dei testi che diventeranno in un attimo la colonna sonora di quegli anni così intensi e intricati, gli anni del Vietnam e delle lotte per i diritti civili, di John Fitzgerald Kennedy e dei missili a Cuba. Pensare di portare sulla scena un artista come Dylan era qualcosa di più di una scommessa, e senza dubbio possiamo dire che James Mangold l’ha vinta.