Dal 19 al 24 febbraio 35 studenti delle classi quinte dei due Istituti fossanesi, l’Ancina e il Vallauri, sono stati in visita a Cracovia e ai campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau grazie al progetto Promemoria_Auschwitz dell’associazione torinese Deina. Per la seconda volta Fossano prende parte al viaggio come già altri comuni della Regione Piemonte, perché le nuove generazioni possano meglio comprendere il senso e il valore della memoria e la sua relazione con la nostra storia.
L’iniziativa locale, promossa dall’Anpi di Fossano, ha trovato fin da subito il sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Fossano, necessario per coprire una parte delle spese dei partecipanti e assicurare continuità al progetto.
L'inserto speciale pubblicato su La Fedeltà di mercoledì 12 marzo raccoglie alcuni dei lavori realizzati dai docenti accompagnatori e dagli studenti partecipanti. Pubblichiamo di seguito altri contributi.
SPECIALE PROMEMORIA_AUSCHWITZ La Fedeltà 12 marzo 2025
VIAGGIO DELLA MEMORIA (19-24 febbraio 2025)
Diario di bordo: Fossano-Cracovia-Auschwitz A/R
Mercoledì 19 febbraio: Fossano-Cracovia
Ore 15:30: appuntamento in Piazza Kennedy davanti alla stazione di Fossano. Dopo aver caricato i bagagli, il pullman parte alla volta di Cracovia. Durante le ore di viaggio siamo coinvolti in attività educative per favorire la conoscenza reciproca. Parliamo, lavoriamo, scherziamo anche. Alcune ore di sonno. Il viaggio procede regolare, scandito dalle pause che le normative prevedono per i nostri autisti. Attraversiamo tutta la pianura padana; sconfiniamo a Tarvisio per poi tagliare l’Austria lungo la direttrice Klagenfurt-Vienna e la repubblica Ceca tra Brno e Ostrava. Di tanto in tanto un autogrill con prezzi in euro o in corone ceche. All’alba siamo in Polonia.
Giovedì 20 febbraio: Cracovia
Arriviamo all’Hotel Wyspianski poco dopo le 9. Visitiamo il centro di Cracovia seguendo le istruzioni di un ‘contest’ proposto dai tutor DEINA che prevede esplorazioni e fotografie di luoghi particolari della città. Pranzo libero e poi, nel primo pomeriggio, check-in in hotel: ci dividiamo nelle stanze in base all’assegnazione che abbiamo pattuito in viaggio tra di noi per disfare le valigie e riporre i vestiti negli armadi.
Nelle ore pomeridiane siamo liberi per le vie di Cracovia per poi riunirci alle 19:45 e cenare tutti assieme.
Venerdì 21 febbraio: il ghetto e la fabbrica di Schindler
Sveglia alle 7 in punto; alle 8 siamo tutti nella Piazza degli Eroi del ghetto ebraico di Cracovia. Da qui seguiamo la nostra guida polacca, che parla un ottimo italiano e ci accompagna alla fabbrica Museo di Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco protagonista del celebre film di Spielberg. A mezzogiorno ci incamminiamo verso il quartiere di Podgórze soffermandoci sui luoghi simbolici della comunità ebraica. Alle 19 tutti i gruppi DEINA (siamo oltre 500 a Cracovia, da tutto il basso Piemonte) si ritrovano all’Auditorium Maximum per la proiezione del filmato “La scelta”, incentrato sui conflitti nella ex Jugoslavia.
Sabato 22 febbraio: Auschwitz-Birkenau
La sveglia è alle 5:30. Un’ora di viaggio in pullman e alle 7:30 il gruppo G (così ci chiamiamo noi dell’Ancina e del Vallauri) inizia la visita al campo di concentramento e sterminio di Auschwitz I. Diversi padiglioni ed edifici. Ovunque i segni di un passato feroce. La guida, un italiano che da anni vive in Polonia, è molto preparata e professionale.
Al pomeriggio varchiamo i cancelli del campo di Birkenau, circondato da distese di boschi. Davanti a noi una superficie chilometrica di binari arrugginiti e baracche spoglie, dove venivano stipate centinaia di persone in condizioni disumane. Camminando nel silenzio angosciante proviamo ad immaginare come potesse essere la vita all’interno del perimetro di filo spinato.
Domenica 23 febbraio: meeting collettivo a Cracovia
Colazione alle 8. Dopo un momento di condivisione col nostro gruppo per scambiare impressioni ed emozioni vissute, ci ritroviamo nell’Auditorium per un meeting con altri studenti del Piemonte per condividere le riflessioni attraverso il confronto con storici, antropologi, educatori.
Ultime ore, qualche spesa a Cracovia e poi alle 21:30 si parte alla volta di Fossano, attraversando nottetempo la Repubblica Ceca e l’Austria. All’alba siamo in Italia.
Lunedì 24 febbraio: Fossano
Arriviamo a destinazione alle 16. Rieccoci tutti nella piazza da cui siamo partiti. Sono stati cinque giorni densi d’esperienze che portiamo a casa con noi.
Manar Ibourki, Matteo Racca 5B s.u. - Liceo Ancina
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Il ghetto di Cracovia
Il coraggio di Oskar Schindler e di Tadeusz Pankiewicz
Cracovia non è solo una delle città più affascinanti della Polonia, ma anche un luogo che porta impressi i segni di una storia dolorosa. Camminando tra le sue strade, è impossibile non imbattersi nei luoghi simbolo della tragedia dell’Olocausto, testimoni silenziosi di un passato che non deve essere dimenticato.
Poco oltre il centro storico si estende quello che un tempo era il ghetto ebraico, istituito dai nazisti nel 1941. Qui migliaia di famiglie furono costrette a lasciare le loro case per vivere in condizioni disumane, fino alla deportazione nei campi di sterminio. Oggi, al posto del ghetto, si trova la Plac Bohaterów Getta, una grande piazza su cui sono disposte settanta sedie di metallo, un memoriale sobrio ma potente. Ogni sedia simboleggia il vuoto lasciato dalle vittime, invitando i passanti a una riflessione silenziosa.
Nonostante il tempo e lo sviluppo urbano abbiano cancellato gran parte del ghetto, alcuni frammenti del muro originale resistono ancora. La sua forma, che richiama le lapidi dei cimiteri ebraici, è un monito tangibile della crudeltà subita da chi fu perseguitato. Guardandolo, è impossibile non chiedersi come sia stato possibile un simile orrore, come la sola colpa di essere nati in un determinato momento storico abbia potuto segnare il destino di migliaia di innocenti.
Un altro luogo emblematico è la “Farmacia sotto l’Aquila”, gestita da Tadeusz Pankiewicz, l’unico non ebreo autorizzato a rimanere nel ghetto. La farmacia divenne un rifugio, un luogo di resistenza e di aiuto per gli ebrei perseguitati. Pankiewicz scelse di non voltarsi dall’altra parte e di opporsi all’orrore nazista, salvando vite umane a rischio della propria. Un gesto di straordinaria umanità che troppo a lungo è rimasto nell’ombra.
Parlando di coraggio, impossibile non citare Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco che salvò oltre 1.200 ebrei impiegandoli nella sua fabbrica. Il suo nome è divenuto celebre grazie al film “Schindler’s List” di Steven Spielberg, che ha contribuito a mantenere viva la memoria di quegli eventi. Ma la sua storia va oltre il cinema: la sua fabbrica, situata nel quartiere di Zabłocie, oggi è un museo che racconta la vita nella Cracovia occupata e l’impegno di Schindler nel sottrarre tante persone alla deportazione.
Visitare il museo è un’esperienza toccante: nelle sale si trovano oggetti originali, documenti storici e fotografie delle persone salvate. Le vetrate esterne riportano i volti e i nomi di coloro che, grazie a un colpo di fortuna e alla determinazione di un uomo, scamparono alla morte. Camminando tra le esposizioni, si percepisce quanto il destino di queste persone fosse fragile, come in un regime totalitario la sorte fosse determinata da dettagli insignificanti.
La fabbrica di Schindler non è solo un luogo di commemorazione, ma un messaggio per le generazioni future. È un invito a non restare indifferenti di fronte alle ingiustizie del presente, perché la memoria non sia solo ricordo, ma anche monito. Quando gli ultimi testimoni diretti non ci saranno più, saranno luoghi come questo a parlare per loro, affinché il passato non si ripeta.
Cracovia è una città che respira storia e memoria a ogni angolo. Passeggiare tra le sue vie significa immergersi in un passato che ancora oggi insegna. Dai vicoli del quartiere ebraico Kazimierz alle mura che un tempo circondavano il ghetto, ogni dettaglio racconta una storia. E forse proprio questo è il valore più grande di un viaggio in questa città: la possibilità di toccare con mano la memoria e trasformarla in consapevolezza. Un’esperienza che ci ricorda quanto sia fragile la libertà e quanto sia fondamentale custodire il ricordo per costruire un futuro migliore.
Edoardo Giraudo, Edoardo Lo Iacono, Alessio Sodano 5E INF - IIS Vallauri
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Se questo è un uomo - Primo Levi
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Questa poesia è l’introduzione al celebre libro di Primo Levi “Se questo è un uomo” che narra l’esperienza dell’autore nel campo di concentramento di Auschwitz durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intento di queste righe è di richiamare l’attenzione del lettore per indurlo a riflettere sulla propria quotidianità e apprezzarla di più. È la stessa vita quotidiana che è stata strappata a milioni di persone. Levi non vuole solo descrivere la vita nel campo, ma invita i lettori a considerarne l’assurdità.
Può essere ancora ritenuto uomo chi è costretto a lavorare nel fango giorno e notte e che lotta per non morire di fame? Può essere ritenuta donna quella cui sono stati tagliati i capelli, che non ha più un’identità, non ha più le forze? Certamente no.
Lo scrittore infine ci esorta a ricordare le sue parole e a tramandarle di generazione in generazione: infatti, afferma che “l’Olocausto è una pagina del libro dell’umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”.
Primo Levi è uno scrittore torinese di origine ebraica, nato nel 1919. Durante gli studi universitari sviluppa una grande passione per la chimica, che, anche se ancora non lo sa, gli salverà la vita. Nel 1943, in quanto ebreo, viene deportato a Fossoli dove si radunano “gli appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista repubblicano”. Nel 1944 è trasferito a Monowitz, terzo campo di concentramento del sistema di Auschwitz, dove vive in condizioni durissime tra freddo, fame e sfruttamento. Tuttavia riesce a sopravvivere poiché ottiene un posto di lavoro in una fabbrica di gomma, cui accede grazie alle sue conoscenze scientifiche. “Era un lavoro di lusso, perché nessuno ci controllava; però faceva freddo e umido” racconta. Si ammala di scarlattina pochi giorni prima dell’arrivo dei carri armati sovietici che libereranno il campo il 27 gennaio 1945. È proprio a causa della malattia che non partecipa alla “marcia della morte” insieme agli altri deportati e riuscirà a salvarsi. I malati, infatti, sono abbandonati dai tedeschi, perché ritenuti non in grado di affrontare un viaggio così lungo. Nel 1987 si toglie la vita per il peso psicologico che ancora si porta dentro. Nel libro manifesta la sua incredulità quando scrive: “Oggi, questo vero oggi in cui sto seduto ad un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute”. La stessa sensazione possono provarla coloro che oggi si informano sull’accaduto e visitano i luoghi in cui questi fatti si sono verificati.
Il Lager è un luogo di morte e distruzione, il cui scopo è sterminare determinate categorie di persone e minoranze etniche. Questo ambiente è un mondo di negazione che rende gli uomini disumani. Il senso del titolo del libro sta proprio in questo. La dignità è annullata sia nelle vittime sia negli oppressori. Ciononostante, racconta Levi, “Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”.
Lorenzo Perrone, muratore fossanese, si trovava nello stesso campo di Primo Levi per effettuare alcuni lavori di ampliamento. Un giorno incontra Levi e da lì inizia un’amicizia proibita, basata sull’aiuto concreto (cibo e acqua) e sul supporto psicologico.
In conclusione lasciamo che sia Primo Levi a parlare e a trasmettere il messaggio più importante: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.
Fabiana Gerbaldo, Sara Vizio 5A ling. - Liceo Ancina
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Impressioni da Auschwitz e non solo
Ci sono luoghi che non si visitano. Ti entrano dentro, ti scuotono, ti cambiano. Auschwitz e Birkenau sono così. Non sono solo testimonianze di un passato lontano, ma la prova tangibile di un dolore che ancora pesa sul presente. Camminando tra le baracche, lungo i binari, davanti a quelle mura fredde mi rendo conto che lì, dove ora sono io, c’erano persone come me. Ragazzi, madri, padri, bambini. Persone con sogni, paure, speranze. Ma a loro è stato tolto tutto. Si sono trovate nel posto sbagliato, al momento sbagliato, senza alcuna colpa.
Tra le tante storie ascoltate, una in particolare mi ha spezzata dentro: quella di una madre e del suo bambino malato. Sapendo che presto lo avrebbero strappato via per portarlo alla morte, lei ha scelto di stringerlo a sé e andarsene con lui, abbracciati al filo spinato. Non riesco a togliermi questa immagine dalla testa. Non riesco a immaginare il terrore, il dolore, il coraggio disperato di quella madre.
E poi i bambini, i ragazzi, quelli che avremmo potuto essere noi. Avevano sogni, forse volevano studiare, viaggiare, innamorarsi. Non ne hanno avuto il tempo. Questa consapevolezza mi ha lasciata addosso un senso di colpa sottile ma innegabile: noi abbiamo tutto questo, abbiamo possibilità, libertà, futuro, ma spesso non ce ne rendiamo conto e non siamo mai troppo grati di ciò che abbiamo.
Mi ha colpito come il dolore rimanga impresso nei muri, nel terreno, nell’aria stessa di quei luoghi. Mi sono resa conto di quanto io sia fortunata. Di quanto sia un privilegio poter sognare, poter scegliere, poter vivere senza paura.
Questo viaggio non è stato solo un viaggio. È stato uno schiaffo in pieno viso. Un richiamo alla realtà. Un dolore che resta.
Yusi Xia 5B AFM - IIS Vallauri
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“Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.” Così afferma in “Se questo è un uomo” Primo Levi, uno tra i milioni di prigionieri dei campi di concentramento nazisti.
All’interno dei lager avviene una vera e propria disumanizzazione: le vittime, infatti, perdono ogni caratteristica fisica e morale che li rende umani, essendo identificati con dei semplici numeri e costretti a condizioni di vita e di lavoro degradanti.
Inizialmente i deportati non conoscono il loro destino, per cui si preparano al viaggio portando con sé in grandi valigie qualche oggetto di uso quotidiano: vestiti, tazze, pentole, posate, pettini, rasoi. Visitando Auschwitz I, si possono vedere da vicino i tanti bagagli sui quali i proprietari stessi hanno inciso il loro nome, convinti di potersene riappropriare.
Le scritte su quelle valigie costituiscono un tentativo disperato di mantenere intatta la propria identità: si tratta di una speranza vana che verrà violentemente annientata. Per questo bisogna ricordare che quei sei milioni fra ebrei, rom, sinti, oppositori politici, disabili, omosessuali non sono solo numeri, ma ognuno di loro ha una propria storia, una famiglia, una patria come ogni altro essere umano. Solo mantenendo vivida la memoria e percorrendo le strade di quei luoghi dell’orrore è possibile restituire loro una parte dell’essenza e della dignità perdute.
Chiunque abbia un po’ di sensibilità nell’animo non può non immedesimarsi nelle angosce e nelle sofferenze che migliaia di persone (uomini, donne e bambini) provano nel momento in cui stanno per morire o vedono un loro caro condotto ai forni, con la consapevolezza che non lo rivedranno più.
È, infatti, normale commuoversi dinanzi agli orrori più crudeli avvenuti in quei luoghi, ma la visita ai campi di Auschwitz sconvolge molto di più, perché ci si rende conto di tutto il cammino percorso dai deportati da quando, increduli, partono dalle proprie case, fino alla morte nei lager.
Non si può non provare empatia nei confronti delle loro paure per l’incredulità suscitata dal passaggio da una vita “normale” ad una così disumana. Durante il viaggio sono accompagnati da una speranza costante che ha permesso loro di sopportare tutte le privazioni e le torture psicologiche a cui sono stati sottoposti.
L’idea che per queste persone la paura di morire, probabilmente, è meno angosciante di quanto dovrebbe essere è aberrante. L’aspetto peggiore è forse proprio questo: dopo essere privati della libertà, dell’autonomia, della dignità, della propria identità e degli affetti, la morte viene accolta come una liberazione che coincide con la fine dei patimenti e delle sofferenze.
Non si può considerare l’Olocausto come una vicenda che ha colpito un solo popolo, ma è una questione che riguarda tutti: nessuno può dichiararsi estraneo al fatto perché in un futuro, magari nemmeno troppo lontano, ognuno di noi può essere “l’ebreo” per qualcun altro.
Elisa Ciravegna, Samuele Costamagna, Iris Viti 5B Sc. - Liceo Ancina
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Quando varchi il cancello di Auschwitz, è come se il tempo si fermasse. No, non è solo per il fatto che è rimasto esattamente com’era ottant’anni fa. Non si tratta del silenzio assoluto al suo interno, interrotto soltanto dalle voci delle guide. Non basta la memoria di ciò che è avvenuto in quei luoghi ad avverare questa strana magia, che ti distoglie da ogni altro pensiero e ti fa sentire vuoto e impotente nell’osservare le baracche, il filo spinato, i forni crematori, non più solo come immagini dei libri di storia, ma come elementi reali. No, il tempo si ferma perché capisci che, in verità, non è andato avanti da allora e che ciò che stai vedendo non è altro che il culmine di una vicenda fatta di discriminazione, esclusione sociale e indifferenza che prosegue ancora oggi e che va fermata, ricordando il messaggio che le nostre guide in questa esperienza ci hanno affidato: “Ci devono piacere i vivi, altrimenti è inutile piangere i morti.”
Fabio Bergese, Lucia Bonacossa, Marco Zito 5A Sc. - Liceo Ancina
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Auschwitz è dolore, tristezza, morte. Un luogo in cui l’umanità ha toccato il suo punto più basso. I bambini, quei pochi che non furono mandati subito alle camere a gas, disegnavano ciò che vedevano e vivevano: case senza porte, treni, fili spinati, guardie, la fame, la paura… Osservare quei disegni lascia un nodo in gola, un peso impossibile da ignorare. Eppure, in mezzo all'orrore quei tratti infantili raccontano anche un’altra verità: nonostante tutto, quei bambini erano vita. Segni di vita in un luogo nato per annientarla, un fragile bagliore che nemmeno l’orrore più grande ha potuto cancellare.
Andrea Manfieri 5B LSSA - IIS Vallauri
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Ogni evento storico ha una sua unicità e ognuno suscita emozioni che lo caratterizzano. Queste emozioni non sono sempre elementari e spontanee, ma sono spesso così molteplici e oscure che risulta difficile capirle, se non impossibile.
Quando si arriva ad Auschwitz per la prima volta, si rimane confusi, si entra in un ambiente che suscita emozioni mai provate prima. A prima vista non provi compassione, paura, orrore, ma un sentimento che ti rode dall’interno come una malattia degenerativa, che crea un senso di sbandamento e di vuoto. Questa sensazione mi ha accompagnato per tutta la visita al campo e, quando ci penso, la sento ancora dentro di me. È un sentimento in cui si confondono il reale e l’irreale, un peso che trascina al fondo dei tuoi pensieri. Gli occhi pieni di vitalità di queste giovani vittime, che nelle foto talvolta sorridevano, mi hanno fatto capire quanto sono importanti le emozioni. Con il sorriso hanno dimostrato di essere rimasti umani fino all’ultimo.
Le emozioni hanno il potere di cambiare il nostro punto di vista. Le persone che hanno saputo sorridere hanno vinto il nazismo, perché sono rimaste esseri umani.
Filippo Manfredi 5B ELT - IIS Vallauri
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La visita al campo di concentramento di Auschwitz ha avuto un forte impatto su di noi: mai avremmo potuto pensare di trovare espressioni d’arte in questo luogo responsabile della soppressione di ogni emozione e dello svanire di ogni identità: infatti, sono proprio le immagini a sfondo bianco ricalcate da Michal Rovner dei disegni realizzati dai bambini del campo ad averci colpito maggiormente. Semplici, ma potenti e dirette. Poche linee nere lasciano trasparire il dramma di un’infanzia rovinata da esperienze raccapriccianti. Di fronte a questa visione, immediato è stato il confronto con la nostra fanciullezza, estremamente diversa dalla loro e caratterizzata da ingenuità, spensieratezza e affetto. Ciononostante, ci siamo rese conto che qualcosa in comune ce l’avevamo: il desiderio di realizzare i nostri sogni e la speranza in un futuro brillante. I bambini del blocco 27 hanno, però, visto le loro fantasie e aspettative andare in frantumi. Questo e molti altri aspetti osservati nel campo mostrano perfettamente l’insofferenza dei nazisti nei confronti di chi è innocente.
Veronica Abrate 5A ling. - Liceo Ancina
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Arrivato ad Auschwitz mi sono sentito inizialmente fuori dal tempo. Spaesato, ho fatto i primi passi dentro il campo. A poco a poco mi sono reso conto che tutto quello che avevo letto era reale. C’era il sole che illuminava la scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi). La visita è stata molto toccante. Tutte le storie, i racconti, i documentari, le testimonianze che avevo letto e sentito erano lì, reali e concrete. Difficile dire cosa ho provato: ogni emozione e sensazione mi è sembrata astratta. Una parola, un disegno o una scritta non bastano a rappresentare quello che quel campo è stato. Non abbiamo mai provato sulla nostra pelle quello che è successo qui, quindi non possiamo nemmeno immaginare di metterci nei panni di chi quella realtà l’ha vissuta.
Ognuno di noi deve poter capire; per comprendere pienamente, secondo me, bisogna andare in quei luoghi, vedere e toccare con mano; solo lì ci si può rendere conto fin dove può arrivare la crudeltà umana.
Damiano Biga 5A MEC - IIS Vallauri
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Dopo circa un’ora di viaggio da Cracovia siamo giunti nel luogo del male, del disumano, del silenzio. Cercavo di scorgere, fuori dal finestrino, qualcosa che potesse anticiparmi quelle tristi vedute, ma una sola macchia è riuscita a catturare la mia attenzione: quella alta, calda e gialla del sole. Ero stanco in quel momento, la sveglia era suonata alle 4:45, ma quando ho visto il grande astro i miei occhi, prima stanchi e vacillanti, erano vigili e increduli. Mi chiedevo come fosse possibile che quello stesso sole che ora rischiarava il cielo polacco (e che negli anni ha illuminato i momenti belli della mia vita) in quell’oscuro periodo avesse potuto rischiarare le tenebre e le ombre che avvolgevano questo luogo. Mai più dovremo dimenticare l’oscurità di quegli anni, ma far sì che il sole illumini per sempre quei luoghi per non farli piombare nel buio che li avvolgeva.
Samuele Toti 5B s.u. - Liceo Ancina
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Ai campi di concentramento di Auschwitz I e Auschwitz-Birkenau si entra con una tempesta di domande, con il desiderio di comprendere l’incomprensibile, ma si esce con il peso di risposte che non arriveranno mai. Qui il dolore è tangibile. Si cammina tra i resti di un passato che sembra lontano, ma che in realtà ci osserva da ogni muro, ogni filo spinato, ogni traccia di vita spezzata. Alcune immagini restano scolpite nella mia memoria, impossibili da dimenticare: le teche colme di oggetti personali, appartenuti a persone che, varcata quella soglia, cessavano di essere individui per diventare solo numeri. E poi le scarpine dei bambini, perché nemmeno i più piccoli furono risparmiati da questo orrore. Di Auschwitz I ciò che mi ha colpito profondamente è stata la visione di alcuni filmati delle famiglie deportate. Si intravedono attimi di felicità, sorrisi inconsapevoli, ignari del destino che li attendeva.
A Birkenau, invece, la prima cosa che colpisce è l’immensità del campo. Un vuoto sconfinato, fatto di baracche e interminabili fili spinati, così simili tra loro da sembrare quasi indistinguibili. Ho pensato a questa sensazione come alla “banalità del vuoto”: per noi visitatori quei resti si fondono in un’unica, dolorosa distesa, ma per i sopravvissuti ogni angolo racchiude un ricordo, un frammento di vita spezzata. Per Sami Modiano, un punto esatto di quel filo spinato segna l’ultimo istante in cui vide sua sorella. Per le sorelle Andra e Tatiana Bucci, la baracca dei bambini, ormai distrutta, porta il ricordo del cugino Sergio, vittima degli esperimenti di Josef Mengele, l’angelo della morte. In questi luoghi, la memoria diventa tangibile. Il dolore si respira nell’aria, nelle pietre, nel silenzio assordante che avvolge tutto. E mentre si cammina tra ciò che resta di quell’orrore, ci si rende conto che ricordare non è solo un dovere, ma un atto di resistenza contro l’oblio.
Eppure, in mezzo a queste macerie, tra il filo spinato e i resti delle baracche, la vita ha trovato un modo per tornare. Un gruppo di caprioli si muove tra i luoghi della tragedia, inconsapevole del dolore che quel suolo custodisce. È un contrasto stridente, quasi surreale: la libertà della natura contro il ricordo della prigionia. Forse, proprio in questa immagine si cela un messaggio di speranza. Perché, anche nei luoghi più bui della storia, la vita continua. E il nostro compito è ricordare, affinché quell’orrore non si ripeta mai più.
Edoardo Giraudo 5E INF - IIS Vallauri
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Nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau nulla è anonimo. Ogni oggetto, ogni fotografia, ogni testimonianza può essere ricondotta a un nome e a un cognome, a una storia unica e irripetibile. Ogni piccolo dettaglio è la traccia di un'esistenza spezzata, di un destino crudele.
Camminando fra le baracche di legno logoro e lungo i binari che seguivano i treni dei deportati, il luogo in sé non trasmette subito l’orrore che ci si aspetterebbe. È un luogo fisico, fatto di spazi vuoti e di silenzio. Ma è attraverso le parole della guida, attraverso i racconti delle vittime e dei sopravvissuti che tutto prende forma.
Le testimonianze ci hanno colpito nel profondo, rendendo tangibile il dolore che hanno provato milioni di persone. Non è solo un passato da ricordare, ma una memoria da portare con noi, perché dietro ogni numero tatuato sulla pelle c’era una vita, un nome, una famiglia. Dietro ogni cifra si celava un’esistenza piena di sogni, affetti e speranze brutalmente cancellati.
Valentina Grosso, Arianna Morra, Luca Rolfo 5A s.u. - Liceo Ancina
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Oltre i cancelli del “Cimitero di Birkenau” (così definito dalla nostra guida), dove il silenzio dovrebbe essere rispetto, si avverte un rumore stonato: sono incisioni nel legno e nei muri, segni lasciati senza pensare. Anche qui, nel luogo più oscuro della storia, c'è chi usa le superfici come un diario personale, ignorando il dolore che quelle pareti rappresentano. Come può una persona attraversare quei viali, leggere le testimonianze, vedere le camere a gas e uscirne per poi prendere un coltello o un oggetto appuntito e incidere il proprio nome? Cosa mi sfugge di queste persone? È puro egoismo o c'è un vuoto dentro di loro che li spinge a voler lasciare traccia di sé, persino qui? Forse non capiscono che non è necessario “esserci” in quel modo, che la memoria non è un luogo in cui lasciare un segno, ma uno spazio da rispettare.
I nazisti cancellarono nomi, trasformando persone in numeri. Oggi, alcuni visitatori fanno il contrario: sostituiscono quei numeri con i loro nomi, non per restituire identità, ma per affermare la propria presenza. È crudele: proprio dove si combatte l’oblio, si crea un nuovo tipo di danno. Quei segni dicono: “Anche io ho visto la storia”, senza capire che la storia qui ci osserva e ci giudica.
Forse hanno paura di essere dimenticati, e in questo non sono sicuramente soli, ma provare a essere ricordati in quel modo è veramente il modo giusto? Ci sono altri mille modi per essere ricordati oggi, alcuni migliori e altri peggiori, ma questo sicuramente non è il modo giusto. La consapevolezza, dopo aver visitato Auschwitz, di essere solo una persona nel mare di miliardi può colpire chiunque. Ma davvero ha senso rispondere in questo modo?
Visitare questi luoghi dovrebbe bastare. L’ipocrisia regna sovrana: “Sono andato, mi ha cambiato” e poi? Incidi il tuo nome sul legno? Cosa hai capito, allora? La guida ci ha detto chiaramente: qui non troveremo tutte le risposte. Ma in questo caso non si tratta di risposte. Si tratta di rispetto, di ascolto, di memoria. Eppure, c’è chi crede che la lezione della storia passi attraverso il proprio bisogno di lasciare un segno.
Non è solo un pezzo di legno rovinato. Si confonde la memoria con lo spettacolo, il rispetto con il turismo superficiale. Quelle incisioni mostrano un mondo che divora tutto, anche il dolore, trasformandolo in sfondo per selfie o segni di passaggio. Eppure in quel gesto irrispettoso c’è una domanda nascosta: “Come posso essere ricordato?”. La stessa domanda che ha tormentato milioni di persone rinchiuse qui.
Proteggere questi luoghi non significa solo ripulire le incisioni. Significa insegnare che la memoria non è un oggetto da esibire, ma qualcosa da onorare. Forse, accanto ai blocchi di cemento, dovrebbero esporre anche i coltelli o gli oggetti confiscati: simboli di quanto sia facile passare dal ricordo al disprezzo. Perché la civiltà non è un museo, ma un cantiere sempre aperto.
Kristian Buriasco 5E INF - IIS Vallauri
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La vastità di Birkenau mi ha colpito profondamente. Vedere l’infinita distesa di baracche tutte uguali e i binari che un tempo portavano migliaia di persone verso la morte ha reso reale ciò che fino a quel momento avevo conosciuto solo attraverso libri e fotografie. Camminare in quel luogo ha significato confrontarsi con la storia in modo tangibile, sentire il peso di ciò che è accaduto. Grazie ai racconti della guida ho potuto immedesimarmi nelle storie di chi è passato di qui. Ci ha parlato di sopravvissuti, di come si viveva nei campi, delle privazioni e delle atrocità che dovevano affrontare ogni giorno. Le sue parole hanno dato un volto e un nome a chi, altrimenti, sarebbe rimasto solo un numero tra milioni come lui. Essere lì, in quei luoghi carichi di memoria, mi ha fatto comprendere ancora di più quanto sia importante ricordare. Perché dietro ogni fotografia, ogni testimonianza, c’era una persona con sogni, speranze e una vita che è stata brutalmente spezzata. Sta a noi fare in modo che tutto questo non venga mai dimenticato.
Fabiano Vittimbergi 5C INF - IIS Vallauri
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“Non è entrando nel campo che troverete le risposte” queste le parole della guida appena arrivati ad Auschwitz. Aveva ragione, dopo la nostra visita possiamo definirci testimoni di cosa è successo. Ora sappiamo che è tutto reale, ma forse nessuno arriverà a dare una risposta alla domanda che ci siamo posti tutti quanti: “Come si è potuto arrivare a questo?”. Si possono fare ipotesi, si può ragionare, ma non riuscire a trovare una risposta fa paura, come il pensiero che tutto ciò possa accadere di nuovo. È nostro compito in quanto testimoni, evitarlo, descrivere e raccontare cosa abbiamo visto, le sensazioni e le emozioni provate, perché solo con la memoria si evita che gli errori del passato diventino futuro.
Andrea Chiappello 5A MEN - IIS Vallauri
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Visitare Auschwitz e Birkenau è un’esperienza che lascia un’impronta profonda e difficile da descrivere. È impossibile non sentirsi travolti dalla storia e dalle emozioni evocate.
Attraversare questi luoghi è come entrare in uno spazio che sembra sospeso nel tempo, ma reale e presente. In ogni angolo dei campi si riescono quasi a percepire la sofferenza e la morte al punto che la mente fatica a comprendere come sia stato possibile un tale livello di disumanità.
Fa riflettere sia quello che è accaduto qui sia i fatti e le notizie che si sentono ogni giorno nel mondo.
Ogni parte del campo racconta una storia e sono tante le storie di milioni di persone che hanno dovuto vivere in quelle condizioni disumane.
Camminare qui significa confrontarsi con la fragilità dell’essere umano. La crudeltà che qui si è manifestata non è lontana, ma vive anche nel nostro presente, nell’indifferenza di molti e nell’incapacità di riconoscere la dignità dell’altro. Ma questo incontro con l’orrore ci sfida a trovare nella sofferenza una spinta per agire, per restituire significato alla nostra umanità attraverso gesti di compassione, di solidarietà, di pace e di resistenza a ogni forma di discriminazione.
Ancora oggi mi risulta difficile descrivere realmente cosa ho sentito dentro di me visitando questi luoghi. Ma ciò che ho provato e gli stimoli ricevuti dal gruppo, dalla guida e dalle visite di Auschwitz e Birkenau li utilizzerò per le mie scelte future e per cercare, nel mio piccolo, di rendere il mondo un posto migliore.
Giulia Fersini 5A TUR - IIS Vallauri
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Durante la visita a Birkenau non riuscivo a capire che cosa stavo provando, un misto di emozioni e sensazioni alcune mai provate prima. Come ci ha raccontato la guida, a noi, perfetti estranei, questi luoghi potevano sembrare vuoti, ma in realtà sono ricchi di storie di persone, di sofferenza, di difficoltà. Sta a noi cercare di immedesimarci per vivere al meglio questo momento.
Pietro Mandrile 5A ELT - IIS Vallauri
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Questo viaggio mi ha riempito il cuore come mai avrei pensato; sono tornata a casa profondamente grata di essere stata accolta, compresa e sostenuta e con un bagaglio molto più pesante di quello con cui sono partita, pesante di ricordi, di nuove amicizie e della consapevolezza di essere cresciuta grazie a quello che avevo visto e sentito.
Camminare tra quanto resta di quei luoghi, tra le baracche e i ricordi, è come fare i conti con un dolore che non può essere espresso a parole, un dolore collettivo che abbiamo provato tutti insieme, nello stesso momento. Ogni passo che facevo risuonava assordante in quel luogo, lì dove il silenzio dice più di mille parole.
Emma Marchini 5A TUR - IIS Vallauri
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L’impatto del cancello del campo di concentramento di Auschwitz è quasi indescrivibile. Mentre lo attraversavamo, pensavo a quante persone erano passate di lì senza più fare ritorno.
La vista delle vecchie baracche con le fotografie scattate dalle SS negli anni della guerra e la narrazione della guida mi hanno fatto comprendere che quelle vicende, che fino a quel momento avevo conosciuto solo attraverso i libri di storia o i film, non solo erano reali e concrete, ma erano accadute proprio nel luogo in cui mi trovavo.
Il campo di Birkenau mi ha colpito, invece, per la sua vastità. Dopo aver attraversato i binari che un tempo servivano per il trasporto dei deportati, ci siamo trovati di fronte a un’enorme area recintata, con una lunghissima fila di baracche tutte uguali. Grazie ai racconti della guida, sono riuscito a entrare ancor più in sintonia con quel luogo e mi sono reso conto che le storie che ci venivno narrate riguardavano solo alcune delle migliaia di persone che, come me, avevano una famiglia, una casa, amici, desideri, sogni e speranze.
Nicolò Bertone 5C INF - IIS Vallauri
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Durante la visita ai campi di concentramento mi ha colpito pensare come luoghi e oggetti che ad un primo sguardo possono apparire “vuoti” siano in realtà, nei loro silenzi, custodi di significati profondi. Ogni valigia, ogni scarpa, ogni luogo, anche se apparentemente deserto, nasconde il racconto di una vita, destinata a sfuggire a chi guarda questi oggetti solo attraverso gli occhi. Sembra così che ogni cosa diventi testimone diretto di una vita, facendosi tacita portavoce delle speranze e dei dolori provati.
In quei luoghi ho trovato singolare il fatto che la natura continui a prosperare, come se non fosse stata sfiorata o volesse semplicemente dimenticare quanto accaduto. È strano infatti vedere come la vita possa attecchire anche in luoghi segnati dalla morte.
Forse però è da questo contrasto che può nascere ciò di cui più abbiamo bisogno: la speranza.
Edoardo Lo Iacono 5B INF - IIS Vallauri
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Quando ho deciso di partecipare a questo progetto, non immaginavo quanto avrebbe lasciato un segno nella mia memoria. Fin dai primi incontri pomeridiani avevo intuito che non sarebbe stato un viaggio come gli altri. Le persone che ho conosciuto lungo il percorso, compagni, professori, tutor, hanno reso questa esperienza unica e irripetibile.
La visita al ghetto ebraico è stata il primo momento in cui le emozioni hanno iniziato a emergere, accompagnandomi fino alla fine del viaggio e anche oltre. Camminare in un luogo che un tempo fu teatro di sofferenza e privazione, mentre oggi la vita vi scorre apparentemente normale, è stato un contrasto difficile da elaborare. I segni del passato erano ancora lì e la loro presenza rendeva difficile concentrarsi sulle parole della guida, che in quel momento mi sembravano quasi vuote rispetto al peso della realtà intorno a me.
Poi è arrivata Auschwitz. Superato il cancello, il mondo sembrava perdere colore, come se tutto fosse avvolto in una pellicola in bianco e nero, nonostante la giornata di sole. Ogni blocco che visitavamo apriva dentro di me domande senza risposta. Ora le parole della guida non erano più sfocate, ma pesanti come macigni. Mi sentivo impotente di fronte a ciò che era accaduto, chiedendomi cosa avrei fatto se fossi vissuto in quel periodo. Spero di non doverlo mai scoprire.
L’ultima tappa è stata Birkenau. La sua vastità mi ha colpito più di quanto potessi immaginare. Ascoltando le storie raccontate dalla guida, mi chiedevo come fosse possibile raggiungere un tale livello di crudeltà. Nei campi le persone erano indotte a perdere ogni traccia di dignità pur di sopravvivere, arrivando ad accettare i lavori più atroci solo per poter stare al caldo.
Alla fine della giornata avremmo voluto applaudire la guida per la sensibilità e l’intensità con cui ci aveva trasmesso valori fondamentali da rispettare. Ma in un cimitero non si applaude.
Alessio Sodano 5E INF - IIS Vallauri
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Quando ho aderito a questa esperienza non avrei immaginato che potesse essere così unica e ricca di significato. È stata un'occasione straordinaria in cui tutti abbiamo imparato qualcosa che ci rimarrà impresso per sempre.
Ringrazio ogni mio compagno per avermi fatto sentire a casa, senza giudizi, e per aver contribuito a creare un gruppo così unito.
Un grazie speciale va ai tutor, Gabriele e Marco, che sono stati splendidi: se il nostro gruppo è diventato così affiatato, gran parte del merito va a loro.
Grazie anche alle guide, che hanno avuto un ruolo fondamentale nelle visite. Sono riuscite a trasmetterci valori ed insegnamenti profondi, cosa tutt’altro che semplice.
Un grazie sincero ai professori che hanno scelto di accompagnare un gruppo di "teste matte" come noi, cercando sempre di essere propositivi e di guidarci al meglio.
Questa esperienza mi ha cambiato come persona. Ora sono più consapevole di ciò che l’uomo è stato capace di fare in passato e, purtroppo, di ciò che continua a fare anche ora. Le guide ci hanno detto più volte che il futuro è nelle nostre mani: sta a noi impedire che si ripetano gli orrori del passato.
Il primo giorno abbiamo visitato la fabbrica di Oskar Schindler e il ghetto ebraico, accompagnati dalla guida Helena, che ci ha illustrato e fatto comprendere tante cose.
Il giorno seguente abbiamo visitato il campo di Auschwitz, un luogo che mi ha colpito sin dal primo momento. L’impatto è stato forte già all’ingresso, quando siamo passati attraverso il tunnel in cui venivano pronunciati i nomi di coloro che non sono più usciti. Camminando sotto la scritta "Arbeit macht frei" (Il lavoro rende liberi), ho avvertito un senso di vuoto e ho provato a immaginare tutte le persone che erano passate di lì prima di me. Ma era così surreale che non riuscivo nemmeno a concepirlo.
Tra le cose che mi hanno toccato di più ricordo la stanza piena di scarpette di bambini e quella in cui erano esposti i loro disegni: rappresentazioni di ciò che vedevano ogni giorno, impiccagioni e fucilazioni. Un’altra immagine che mi ha segnato è stata quella dei prigionieri ridotti a pelle e ossa, alcuni arrivati a pesare appena 20 kg.
La visita al campo di Birkenau è stata forse la più sconvolgente. Mi ha colpito l’immensità del luogo e la sua imponenza. Abbiamo visitato le baracche dove i prigionieri dormivano e facevano i loro bisogni in condizioni igieniche disumane. Qui la guida ci ha raccontato molte storie di persone che vissero quell’orrore, ma una mi ha particolarmente colpito: quella di una madre che, pur di abbracciare suo figlio per l’ultima volta, lo abbracciò attraverso il filo spinato e rimasero entrambi fulminati. Per lei in quel momento non contava più nulla se non l'amore per suo figlio.
Questa esperienza è stata intensa, dolorosa, ma necessaria. Mi ha lasciato dentro qualcosa di profondo che porterò sempre con me.
Andrea Garzino 5D INF - IIS Vallauri
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Quando ho messo piede a Cracovia il sole splendeva alto nel cielo, ma nel mio cuore sapevo che il viaggio non mi avrebbe regalato bellezza. La città, con le sue imponenti strade e gli storici palazzi, nasconde storie di dolore e di speranza e io ero pronta ad ascoltarle.
La visita al ghetto ebraico è stato il primo passo in un mondo di emozioni contrastanti. Mentre camminavo tra i resti di ciò che un tempo era una comunità vibrante, le parole della guida risuonavano in me malinconiche e fredde. Mi ha colpito il modo in cui i ricordi si intrecciano con la vita quotidiana e i segni della vita passata si mescolano con la vita presente. Ho sentito un brivido, come se le anime di coloro che avevano abitato in quei luoghi fossero ancora lì, ad osservare, a raccontare.
Poi è arrivato il momento di Auschwitz, un nome che evoca immediatamente l’orrore. Varcare quel cancello è stato come entrare in un incubo. Il numero di ogni prigioniero, le scarpe abbandonate, le fotografie sbiadite, i loro oggetti più importanti, ricordi di una vita rubata: ogni passo che facevo sembrava pesare come un macigno. La guida ci raccontava di eventi inimmaginabili e ogni parola era un colpo al cuore. Ho sentito un gelo interiore, un senso di impotenza di fronte a storie così atroci. Ma ciò che mi ha colpito di più è stata la resilienza di chi è sopravvissuto, di quanti in tutto quel male hanno trovato la forza di vivere.
Birkenau, con la sua vastità desolante, mi ha lasciata senza parole. Qui l’eco della sofferenza risuona in ogni angolo. I binari arrugginiti si estendono verso l’ignoto, un tragico promemoria del destino di molti che sono stati colpevoli sin dalla nascita. In questo luogo ho avuto modo di riflettere, ma a distanza di giorni ancora non trovo risposte: perché tutto questo? Perché essere incolpati della propria nascita? Perché subire tali torture? A cosa si voleva arrivare?
Ritornando a Cracovia, il sole stava tramontando e tingeva il cielo di rosso e oro. Le strade, prima piene di vita, ora sembravano portare il peso di ciò che avevo visto. Ma ho anche avvertito una nuova determinazione: portare con me il ricordo di quei luoghi, delle storie che avevo ascoltato. Mi sento in dovere di raccontare, di condividere, di onorare chi non può più farlo. Ogni storia sentita, ogni viso immaginato ci ricorda l’importanza di coltivare la tolleranza, l’empatia e il rispetto. La memoria non è solo un obbligo, è una responsabilità collettiva.
Questa esperienza mi ha cambiato. Ho imparato che la bellezza può coesistere con il dolore e che ogni passo nella memoria è un passo verso la comprensione. Cracovia non è solo una città, è un luogo dove il passato e il presente si intrecciano e dove le storie di resilienza e speranza possono continuare a vivere.
Margherita Picco 5A AFM - IIS Vallauri