Profughi, barriere e filo spinato: traballa l’Europa di Schengen

L’inarrestabile afflusso di rifugiati da Africa e Medio Oriente verso il Vecchio Continente mette in luce i problemi alle "frontiere esterne" dell'Ue

C’è muro e muro. Ma, in fin dei conti, una barriera vale l’altra, almeno laddove significa: la frontiera è chiusa, noi siamo dentro, voi siete fuori e lì dovete restare. E i muri, i fili spinati, i controlli reintrodotti alle frontiere sono l’esatto contrario di uno dei quattro principi – inscritti nei Trattati – su cui si fonda l’integrazione comunitaria: ossia la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. Sono i quattro pilastri sui quali si colloca la “casa comune”, così come fu pensata negli anni Cinquanta, sottoscritta dai Paesi fondatori e controfirmata da tutti gli Stati che nel tempo si sono aggiunti al progetto europeo. Tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso sono poi arrivati gli Accordi di Schengen, per regolare al meglio la circolazione dei cittadini Ue. Ora però, sotto le forti pressioni migratorie provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, il quadro è radicalmente cambiato. Così, se a Est è caduta la Cortina di ferro, l’Europa di oggi torna a puntellarsi di confini invalicabili.

Il nodo delle frontiere esterne. In questi giorni i governi europei e le istituzioni Ue sono attraversati da forti tensioni. Succede che diversi Paesi aderenti all’area Schengen, i quali per principio garantiscono la libera circolazione delle persone, chiedono la sospensione di tale principio e il ripristino dei controlli alle frontiere, per evitare – questo è il motivo – un afflusso eccessivo di migranti e profughi provenienti da Paesi terzi. Il punto debole dell’area Schengen di fatto è rappresentato da frontiere esterne più volte definite “colabrodo”.

Dello spazio Schengen fanno attualmente parte 26 Stati: 22 aderiscono all’Ue (vi hanno rinunciato sin dall’inizio Regno Unito e Irlanda; 4 sono invece “candidati” a farvi parte: Croazia, Romania, Bulgaria, Cipro), cui si aggiungono Svizzera, Norvegia, Islanda e Liechtenstein. Sette di questi Stati hanno chiesto – secondo una procedura autorizzata dai Trattati – di “sospendere temporaneamente” la libera circolazione delle persone e di reintrodurre, dall’autunno scorso, controlli ai confini nazionali. Si tratta di Germania, Francia, Svezia, Danimarca, Malta, Norvegia e Austria. Vienna, in particolare, nei giorni scorsi ha comunicato alla Commissione europea l’intenzione di prolungare fino a fine febbraio il periodo di sospensione degli accordi verso l’Ungheria e la Slovenia, ma non verso l’Italia. Ugualmente la Slovenia ha annunciato che potrebbe a sua volta sospendere Schengen.

No agli extracomunitari. Dunque le aree “calde” dei controlli ripristinati si collocano ora tra Svezia e Danimarca, tra questa e la Germania. Così pure tra Germania e Austria; tra Austria, Ungheria e Slovenia; tra la Francia e i suoi vicini… Di fatto, si è andata creando una situazione generalizzata di mancanza di fiducia nei confronti dei Paesi confinanti.

Dietro i controlli dei passaporti si cela però la volontà di arrestare l’arrivo di profughi africani, siriani, iraniani, curdi, iracheni e di altre nazionalità extra-Ue. Alla sospensione “ufficiale” dei benefici di Schengen, vanno poi accostate le altre forme di “stop”. Polonia e Slovacchia hanno annunciato di essere contrarie ad ospitare nuovi arrivati. Addirittura il governo di Bratislava ha dichiarato di non accettare profughi “musulmani”, misura evidentemente discriminatoria. Ci sono poi le crescenti distese di filo spinato o simili, che attualmente si collocano fra Ungheria e Serbia, Ungheria e Croazia, Croazia e Slovenia, Grecia e Macedonia, Bulgaria e Turchia. Non manca un progetto di rete spinata tra Estonia e Russia.

Requisizione di beni. Esistono poi forme più sottili, ma non meno dirompenti, per erigere barriere. In tal senso prima la Danimarca, e poi la Svizzera, hanno dichiarato la volontà di procedere con la requisizione di beni alle persone con passaporto extra-Schengen che si presentassero alle loro dogane. Dal canto suo il governo britannico vorrebbe che l’Ue gli riconoscesse la possibilità di sospendere per quattro anni i benefici del welfare ai cittadini comunitari che decidessero di migrare verso Londra (proposta in evidente contrasto con i Trattati Ue).

Un significato emblematico. La questione-Schengen non è che un capitolo del più ampio dramma migratorio che da tempo segna l’Europa. Ma proprio la tenuta dell’accordo di Schengen assume un valore emblematico sulla capacità dell’Europa di fornire risposte comuni a problemi comuni, così come avviene per gli altri fronti cui è esposta l’Ue: dall’economia alla moneta unita, dal mercato interno all’unione dell’energia, dalla lotta al terrorismo agli accordi commerciali con gli Usa… Non a caso Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue, è tornato a parlarne il 19 gennaio: “Oggi vengono allegramente violate le regole di Schengen”, con “nuovi muri” e “limiti alla libera circolazione” interna nell’Unione. “Domani ci accorgeremo del prezzo che dovremo pagare per questo”, in termini di diritti fondamentali, di collaborazione tra i governi, ma “anche in termini economici”, perché la libera circolazione “è un presupposto del mercato unico comunitario”. Nella stesso giorno Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, ha argomentato: “Non c’è alternativa al controllo delle frontiere esterne”, altrimenti “Schengen non regge”.

Schengen, dunque, è a rischio, assieme alla capacità di costruire un’Europa realmente ed efficacemente unita.