Annalena Tonelli – 2

Testimoni del Risorto 09.11.2016

La gente passa dallo stupore all’ammirazione per quella donna esile che non vuole convertire nessuno, che anzi in quel Centro ha aperto, oltre alla scuola di alfabetizzazione e a quella di inglese, anche una regolare scuola di Corano. E che intanto si spende per i rifiutati dalla società, pagando di persona se necessario, come durante il massacro di Wagalla in cui contrasta a viso aperto il governo kenyota che ha ordinato il genocidio di una tribù nomade: grazie a lei solo mille, dei cinquantamila votati allo sterminio, vengono massacrati, ma Annalena Tonelli finisce davanti ad una corte marziale, espulsa poi dal Kenya come “ospite non gradita”. Pende su di lei l’accusa di aver dato sepoltura ai cadaveri e curato i feriti della strage, ma soprattutto di aver sensibilizzato l’opinione pubblica mondiale con le fotografie cruente che è riuscita a far arrivare alle ambasciate straniere a Nairobi. Ed è allora che tra gli arabi si diffonde la convinzione che forse, anzi sicuramente, lei pure andrà in paradiso, malgrado sia un’“infedele”, perché “se noi abbiamo la fede tu hai l’amore”, mentre gli anziani le assicurano “nel nome di Allah che se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso”, anche se la gente semplice continua a pregare perché Allah converta all’Islam quella donna bianca e straniera, ma straordinariamente ricca di amore e tenerezza. Dopo due anni di “esilio” in Italia, nel 1987 parte per la Somalia, per continuare la sua lotta alla tubercolosi. Vi arriva giusto in tempo per essere testimone delle violenze dei ribelli che tentano di rovesciare il regime di Siad Barre. Si stabilisce a 400 chilometri da Mogadiscio e anche qui la sua opera disinteressata e gratuita compie miracoli d’amore: “Aumentai a 105 il numero di letti nel sanatorio di Beled Weyne e nell’ambulatorio trattavamo circa 200 pazienti al giorno. Aprii un nuovo ambulatorio antitubercolare a Bulla Burte che ben presto giunse a curare 100 persone al giorno e aumentai considerevolmente il numero di pazienti a Jalalaqsi”. “Volevo seguire Gesù e scelsi di essere dei poveri”, dice di se stessa, aggiungendo che “null’altro mi interessa così fortemente: Cristo e i poveri in Cristo. Per Lui ho fatto una scelta di povertà radicale”. È un po’ la sintesi della sua vita, che tenta di spiegare cosa spinga questa donna ad essere così follemente innamorata dei “brandelli di umanità” trovati in questo lembo d’Africa, per i quali “vivo a servizio, senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza un salario, senza versamento di contributi volontari per quando sarò vecchia”. Vittima di agguati, rappresaglie, mettendo a repentaglio la propria vita si sposta dall’una all’altra delle strutture che ha creato o che ha riattivato, assistendo tra l’altro alla deposizione di Siad Barre ed alla sua fuga all’estero, seguita da un altrettanto cruenta guerra civile che genera distruzione, morte, carestia che lei combatte come può, sollecitando aiuti dall’estero. “Se anche Dio non ci fosse, solo l’amore ha un senso, solo l’amore libera l’uomo da tutto ciò che lo rende schiavo, solo l’amore fa respirare, crescere, fiorire, solo l’amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla”, scrive. Povera cristiana immersa in ambiente islamico, che nei diciassette anni della sua permanenza in Kenya si “accontenta” delle due messe che il vescovo di Djibouti viene a celebrare per lei sola a Natale e a Pasqua, sente che il desiderio “dell’«Ut unum sint» è stato ed è l’agonia amorosa della mia vita, lo struggimento del mio essere”. Una donna così è tanto amata quanto odiata, anzi forse più odiata: perché si prende cura dei tubercolotici, che la gente considera maledetti da Dio; perché assiste i malati di AIDS, che rappresentano per la famiglia e per il clan un’autentica vergogna; perché convoglia sui suoi progetti umanitari i fondi delle organizzazioni internazionali, disturbando forse le potenti lobby di affaristi senza scrupoli. Sono questi motivi, o non piuttosto l’integralismo e il fanatismo di qualche organizzazione estremista, ad armare la mano ancora anonima, che la sera del 5 ottobre 2003 le esplode vigliaccamente alcuni colpi alla nuca, in seguito ai quali muore dopo mezz’ora di agonia. Probabilmente per lei non è stata una sorpresa, visto che pochi giorni prima ha scritto, a mo’ di testamento: “Non parlate di me che non avrebbe senso, ma date gloria al Signore per gli infiniti indicibilmente grandi doni di cui ha intessuto la mia vita”.
(2 - fine)