Don Francesco Paleari

Testimoni del Risorto 17.02.2016

“Signore, insegnami ad essere furbo” è la sua preghiera preferita, che recita ed insegna ai suoi penitenti, come ricorderà il cardinal Ballestrero, che andava spesso a confessarsi da lui. Ed “essere furbo”, per lui, significa pensare che tutto passa, solo il paradiso è eterno ed allora tutto deve essere fatto in vista di quello che ci attende. Nasce nel 1863 a Pogliano Milanese, in una casa dove si fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, ma in cui i genitori tutte le domeniche vanno a fare la comunione (a quei tempi!) e non tornano mai a casa senza portarsi dietro un povero invitato a pranzo. Perché sono convinti, e lo insegnano ai figli, che non si può ricevere Gesù senza spalancare la porta ai poveri. Non stupisce proprio, allora, se tra i loro cinque figli, sopravvissuti agli otto che hanno avuto, uno scelga di lavorare tra “i poveri più poveri” del Cottolengo. Arriva a Torino giovanissimo, su consiglio del suo parroco, dopo aver faticato a staccarsi dai suoi; vinto dalla nostalgia e tormentato dal dubbio di aver fatto la scelta giusta, una notte tenta anche di scavalcare il muretto di cinta del seminario per tornare a casa. Sul momento prevale il buon senso, in seguito la grazia di Dio fa il resto, e così a 23 anni è ordinato prete con tanto di dispensa papale per la giovane età, perché davvero nessuno ha dubbi sulla sua vocazione. Il pretino (che oltre ad essere giovane è anche piccolo di statura), trova subito la sua collocazione all’interno del Cottolengo: per 53 anni sarà  maestro, predicatore, confessore e direttore spirituale, in un’attività vorticosa e semplice allo stesso tempo, facendosi tutto a tutti e condendo ogni cosa con il suo inconfondibile sorriso. Perché, se del Cottolengo si diceva che era il “Canonico buono”, di don Franceschino dicono semplicemente che è “il prete che sorride”. Il suo è un sorriso che conquista: i bambini, prima di tutto, che vanno volentieri a confessarsi da quel piccolo prete, poco più alto di loro, ma anche, indistintamente, vescovi e preti, nobildonne e popolani, suore e seminaristi, che quando hanno bisogno di un conforto, un consiglio o una spinta vanno a cercare quel prete che fa sorridere il cuore. Dato che poi i santi hanno buon fiuto e si riconoscono a distanza, riesce a farsi conquistare anche dal canonico Allamano, che prima gli chiede di andare a confessare regolarmente i giovani preti del convitto, poi i futuri Missionari della Consolata, infine inizia con lui una fraterna emulazione alla virtù, con la familiarità e la sincera amicizia che soltanto i veri santi sanno avere. Anche la diocesi torinese si accorge di che perla di prete sia e così fioccano gli incarichi. Il vescovo lo vuole confessore dei seminaristi, dicendo loro che quel pretino “è un altro San Luigi”; gli chiede in continuazione di predicare corsi di esercizi spirituali; lo segnala come confessore a svariati istituti di suore; lo vuole provicario della diocesi, consultore per lo spostamento dei preti e insegnante in seminario, anche se qualcuno, forse più per invidia che per convinzione, storce il naso, dicendo che, in quanto ad intelligenza e capacità, a Torino si potrebbe trovare di meglio. Come don Franceschino riesca a reggere una tale mole di impegni è tuttora un mistero: lui non obbietta, non si lamenta, quasi si scusa di non poter fare di più, anche perché gli impegni diocesani si assommano a quelli che regolarmente continua a svolgere alla Piccola Casa. “E’ mio Padre”, risponde con disarmante semplicità a chi gli fa notare che anche nel fisico ha una certa somiglianza con il Cottolengo. Da quel Padre ha ereditato soprattutto la fede, che gli fa compiere piccoli prodigi, come leggere nei cuori, vedere a distanza e operare guarigioni con semplici impacchi di acqua fresca, che lasciano chiaramente intendere che il rimedio non sta nelle medicine ma soltanto nella fede. Se lui non dice mai basta, è il suo cuore a ribellarsi e ad andare a brandelli per il suo continuo donarsi. È costretto alla completa inattività ed a passare dal letto alla sedia, fino al 7 maggio 1939, quando si spegne. Poveri e ricchi, preti e vescovi sfilano davanti alla sua bara e per lui, nel 1947, bisogna fare un’eccezione alla regola, che la Piccola Casa si è data, di non avviare cause di beatificazione. Il 17 settembre 2011 don Francesco Paleari è stato beatificato a Torino, primo prete del “Cottolengo”, dopo il fondatore, ad essere elevato alla gloria degli altari, mentre a tutti continua a ripetere: “Facciamoci furbi: utilizziamo il tempo, il Paradiso è eterno”.