Elisabetta Canori Mora – 1

Testimoni del Risorto 31.08.2016

Quel matrimonio, che sembrava il coronamento di una meravigliosa storia d’amore, si frantuma in pochissimo tempo, tarlato da 27 lunghi anni di tradimento coniugale, con ampi spazi di lucida follia intervallati da episodi di spavalda violenza fisica, azzardi e sperperi finanziari che portano all’indigenza. È una storia di ordinario adulterio e di sfrontato libertinaggio, per nulla datati anche se risalenti a due secoli fa, in cui solo il finale è a sorpresa, perché intessuto con l’impercettibile sottilissima trama di una misericordia in “formato famiglia”. Elisabetta Canori, bellissima e dolcissima figlia di un agiato proprietario terriero, il 10 gennaio 1796 sposa Cristoforo Mora, figlio di un rinomato medico romano che sembra avere tutte le carte in regola per essere un “ottimo partito”, in quanto colto, educato, religioso, con una ben avviata carriera di avvocato. Sembra anche innamoratissimo della giovane moglie, il che, se è un valore aggiunto in un matrimonio d’amore autentico, finisce per essere più che un campanello d’allarme se spinto quasi all’eccesso di un’idolatria per la bellezza della moglie, costretta a non far niente per non sciuparsi o stancarsi e impedita anche di cucire o ricamare perché non le si induriscano le affusolate bianchissime dita. Si tratta, evidentemente, di un amore malato, che si trasforma ben presto in ossessiva gelosia: Cristoforo arriva ad impedire alla moglie qualsiasi contatto con l’esterno, inibendole la possibilità di incontrare chiunque, anche i genitori. Altrettanto velocemente, alla paranoica gelosia subentra una glaciale freddezza e la più totale indifferenza verso la moglie, perché Cristoforo si è invaghito di un’altra donna, a causa della quale comincia a disertare il proprio lavoro e la propria casa, rientrando sempre a notte fonda, se non alle prime luci dell’alba, dopo serate di sesso, gioco e bagordi. L’amante è riuscita ad irretirlo al punto da succhiargli progressivamente le sue sostanze e fargli trascurare la professione, riducendolo sul lastrico. E, questo, nonostante Elisabetta gli abbia partorito nel frattempo quattro figlie, due sole delle quali riescono però a sopravvivere. Marito fedifrago e padre completamente assente, non si sente minimamente in colpa nel lasciar la famiglia priva del necessario, ma almeno ha il buon gusto  di concedere, sull’educazione delle bimbe, ampia libertà alla moglie. Che ne approfitta per farle crescere con i principi cui lei si ispira, perché il tradimento, pur se sfacciatamente consumato alla luce del sole, non è riuscito ad indurirne il cuore né a mortificarne la femminilità. Si è proposta di praticare la dolcezza, esercitare la pazienza e non adirarsi mai e così ogni notte attende il suo uomo, appena uscito dalle braccia di un’altra donna, accogliendolo come il più fedele dei mariti. Non certamente succube né da lui plagiata, diventa capace di contestargli l’adulterio con dolcezza, consapevole che quanto a lui la lega in virtù del sacramento del matrimonio, è di gran lunga superiore a qualsiasi tradimento. Arriva addirittura a pregare per la “rivale in amore”, augurandosi di poterla avere accanto in paradiso e che ciò non sia buonismo lo dimostra insegnando alle figlie a rispettare quella donna che, umanamente parlando, davvero non se lo meriterebbe. Non per convenienza, tantomeno per servile sottomissione, resta a lui legata, forse con la segreta speranza di recuperarlo e convertirlo, perché si sente responsabile della di lui salvezza. Dopo essersi spogliata dei suoi pochi gioielli ed aver messo in vendita addirittura il suo abito da sposa per pagare alcuni tra i tanti debiti contratti dal marito, va mendicando dilazioni dai creditori, trangugiando le umiliazioni che ciò le procura e fermandosi soltanto quando i più spavaldi tra questi osano avanzarle ricatti sessuali. Nessun aiuto le arriva dai parenti di lui, piuttosto ulteriori amarezze che acuiscono, se mai fosse possibile, il suo senso di completo abbandono. Contestata duramente dal suocero e criticata con acredine dalle due cognate, riesce a trovare un minimo di sostegno solo dalla suocera, che si fa sua complice nel sanare, di nascosto dal marito, qualche debito, le procura qualcosa da mangiare e l’aiuta nell’educazione delle bimbe. È anche l’unica a sostenere l’attività caritativa di Elisabetta, permettendole di raccattare quello che avanza dai pasti o che le figlie cestinano, perché questa lo possa distribuire ai tanti poveri cui dà assistenza. Perché sua nuora, pur in estrema indigenza, non si ritiene tanto povera da ignorare gli accattoni o da non assistere i malati abbandonati.
(1 - continua)