Emilia Fernández Rodríguez

Testimoni del Risorto 04.03.2015

Volendo fare  un omaggio a tutte le donne in occasione della loro festa di domenica prossima, non ho trovato di meglio che parlare di una donna innamorata, intraprendente e forte. Non sa né leggere né scrivere ed è una gitana: se in un giorno non lontano venisse elevata alla gloria degli altari, il popolo zingaro avrebbe con lei la sua seconda beata, dopo Ceferino Gimenez Malla, che Giovanni Paolo II ha già beatificato nel 1997. Emilia Fernández Rodríguez nasce il 13 aprile 1914 nel quartiere poverissimo, abitato da nomadi, di Tíjola (diocesi di Almerìa, in Spagna), in una famiglia gitana che si guadagna da vivere onestamente, costruendo canestri; per questo, potrebbe entrare nel martirologio romano come “Emilia la canestraia”. Non ha tempo per andare a scuola, in compenso si addestra fin da bambina nell’arte dell’intreccio, diventandone abilissima. Un lavoro, in ogni caso, che non le permette di arricchirsi, ragion per cui le sue condizioni economiche sono davvero più che modeste, al limite della povertà. Battezzata nello stesso giorno della nascita, frequenta regolarmente la chiesa, tuttavia si sposa secondo il costume gitano: una scelta quasi obbligata, per la verità, visto che la chiesa parrocchiale è chiusa da parecchi mesi per evitare profanazioni, nel delicato clima che la Spagna vive nel periodo 1936/1939, con tante persecuzioni contro la Chiesa e una miriade di martiri. Il matrimonio è celebrato tra febbraio e marzo 1938, alla soglia dei suoi 24 anni e i festeggiamenti si protraggono tra balli e canti per una settimana intera, secondo il costume della sua gente. La luna di miele è però improvvisamente interrotta dalla cartolina precetto, con la quale il suo giovane sposo Juan Cortés Cortés viene arruolato nella guardia repubblicana. Dinamica ed intraprendente, ma soprattutto innamorata, Emilia si reca allora in municipio, per chiedere ingenuamente al sindaco, in nome del recente matrimonio e del suo desiderio di non separarsi così presto dal marito, la dispensa dall’arruolamento, per combattere per di più una guerra civile da cui il popolo gitano si sente completamente estraneo. Scontata la risposta negativa del sindaco, che semplicemente le ricorda come la diserzione sia punita con l’arresto, che scatterà dal 21 giugno, in caso di mancata presentazione all’ufficio reclutamento. Il che avviene puntualmente per Juan, che, non presentatosi nel giorno stabilito, viene rinchiuso nel carcere “El Ingenio”; anche Emilia è arrestata, per istigazione alla diserzione e favoreggiamento della latitanza, e portata nel carcere femminile Gachas Colorás per scontare una condanna di sei anni, malgrado sia in evidente stato di gravidanza. In cella fa vita comune con un gruppo di donne di Azione Cattolica, ricevendo quel conforto e quel sostegno necessari a sopportare, nelle sue condizioni, la carcerazione e la lontananza del marito. È in particolare una certa Dolores del Olmo a prendersi maternamente cura di lei, mentre Emilia, a sua volta, resta affascinata dalla loro delicatezza e dalla loro premura. Attratta dal loro modo di pregare, è soprattutto incuriosita dalla recita comunitaria del rosario, finora a lei sconosciuto. Tanta è la pazienza delle sue improvvisate catechiste e, insieme, la sua innata intelligenza, da riuscire in fretta ad imparare quelle strane parole latine, al punto che il rosario diventa il suo inseparabile compagno di cella. E lo recita con un fervore e una devozione tali da insospettire i suoi stessi carcerieri, che la sottopongono a torture ed interrogatori senza fine per scoprire da chi lo abbia imparato. La giovane zingarella, se pur prostrata, non si lascia sfuggire neanche una parola e non rivela il nome delle sue catechiste, neanche quando viene messa in cella di isolamento, che poi è un bugigattolo in cui a malapena una persona può stare sdraiata. Qui, in completa solitudine, sulla semplice stuoia che le fa da materasso, Emilia partorisce una bimba il 13 gennaio 1939. È ancora Dolores a riuscire a battezzare la piccola di nascosto, dandole il nome di Angeles, mentre per la mamma le cose non si mettono bene: una copiosa emorragia, contro la quale a nulla serve un tardivo e breve ricovero in ospedale, la porta alla morte dodici giorni dopo il parto. Il suo cadavere è sepolto in una delle tante fosse comuni di quel periodo, ma il peggior tortoè fatto nei confronti della sua piccola creatura, che non viene affidata ai parenti, ma portata in istituto e, come “proprietà dello stato”, data in adozione, senza che a tutt’oggi si sappia che fine ha fatto.