Fra Daniele da Samarate – 2

Testimoni del Risorto 07.12.2016

Diagnosticato il male e accertata l’inefficacia di ogni terapia, è anche inutile che il padre Daniele da Samarate prolunghi la sua permanenza in Italia e non solo perché “è meglio il caldo del Brasile, che la nebbiaccia malsana del Milanese”: ormai il suo cuore batte soltanto in quel luogo “desiderato giorno e notte” e là vuole tornare al più presto.  Rientra nella sua missione, ma vi resta per poco: i medici impongono un isolamento sempre più stretto, fino ad ordinarne, ad aprile 1914, il trasferimento nel lebbrosario di Tucunduba, il che equivale praticamente ad una morte civile, qui attesa da 300 lebbrosi, dimoranti in tre padiglioni ed in alcune casupole che si sono costruite da soli, disposte attorno ad un pantano centrale, la cui melma non è che una pallida immagine di quella morale, ben più consistente, in cui vivono malati praticamente abbandonati a se stessi. L’accoglienza del nuovo arrivato, perché prete e per di più straniero, è tra le più ostili che si possa immaginare e tale resta per otto lunghi mesi, durante i quali gli è persino impossibile avvicinare i moribondi. La prima breccia nei cuori di una parte di loro riesce ad aprirla durante la messa natalizia di mezzanotte, complice forse la nostalgia di una festa che riesce ad toccare anche i cuori più induriti. Ed è grazie a questa breccia che riesce ad entrare in molte case, ad avvicinare molti lebbrosi, ad istituire una scuola di catechismo per 60 bambini abbandonati dai genitori. Praticamente, quasi senza volerlo, finisce per diventare il cappellano effettivo del lebbrosario, acquistando un ascendente sulla maggior parte di quei poveracci, anzi diventando l’ago della bilancia dell’intera struttura, capace di sedare tumulti, calmare gli animi, spegnere le liti che quasi ogni giorno scoppiano tra i ricoverati, traboccanti di rabbia mal repressa, dolore fisico, scarso nutrimento ed assenza di cure. Per una minoranza di malati, purtroppo agguerrita, il padre Daniele continua tuttavia ad essere l’odiato prete, su cui riversare calunnie, infamie ed insulti e che “mi odiano unicamente perché sono sacerdote”. Particolarmente deflagrante e dolorosa anche per lui, pur vaccinato agli insulti, è la lettera di un ricoverato alla direzione della struttura, con cui lo definisce “bandito, perfido, perverso, maledetto, vipera e altre amabilità”. Quale angelo consolatore in tutte queste amarezze, il Signore gli mette accanto Maria, una sua ex alunna della Colonia agricola del Prata: diventa la sua premurosa infermiera e lo assiste come una figlia, venerandolo come un santo, al punto da non avvertire neanche la puzza che durante le medicazioni emana dalla sua carne in putrefazione. Questa santa donna, che arriva a sposare un giovane lebbroso per allontanare dal Padre ogni possibile sospetto e ogni ulteriore maldicenza, diventa preziosa anche per accompagnarlo nei gesti liturgici, guidando i suoi moncherini a stringere il calice o  a spezzare l’ostia, quando la malattia avrà impietosamente demolito gran parte delle sue residue capacità fisiche. Dopo sette anni, reso nuovamente vivibile il lebbrosario, non più soltanto luogo di disperazione e di abbrutimento, il padre Daniele deve arrendersi di fronte al male che avanza e rinunciare anche al servizio di cappellano. Cieco, dolorante, incapace di qualsiasi movimento, ridotto ormai ad un “sacco di carne marcia” secondo l’impietoso giudizio di un confratello, assistito solo dai fedelissimi e abbandonato da chi proprio non resiste stargli accanto, spira il 19 maggio 1924. Il processo per la beatificazione, dopo la fase diocesana conclusa nel 1997, sta proseguendo il suo iter a Roma. Non dispiacerà ai nostri lettori se regaliamo loro la professione di fede che ogni mattina il padre Daniele recitava con i suoi lebbrosi: chissà mai che possa tornare utile a qualcuno!
Io sono figlio di Dio. Dio abita in me. Posso essere tutto quello che desidero perché Dio è il mio aiuto. Non mi stanco mai perché Dio è la mia forza. Non sono mai ammalato e addolorato perché Dio è la mia salute. Non mi manca niente perché Dio è il mio fornitore. Proprio perché sono figlio di Dio, sono unito alla Divina Presenza di mio Padre. Io sono felice in tutto quello che intraprendo perché il mio sapere e le mie conoscenze aumentano in me ogni giorno che passa. Amen.
(2 - fine)