Francesco Besucco

Testimoni del Risorto 06.09.2017

Pur restandoci poco, due anni appena, Domenico Savio si è già fermato più di lui all’oratorio di don Bosco. Difatti, quella di Francesco Besucco è davvero una “toccata e fuga” con destinazione paradiso: appena quattro mesi, eppure così intensamente vissuti da lasciare un segno. Nasce ad Argentera, sulle nostre montagne, il 1° marzo 1850, in una famiglia che per stile di vita non si differenzia dalle altre: estrema povertà, sei bocche di figli da sfamare, due animali nella stalla e un boccone di terra scoscesa cui strappare di che vivere. Anzi, forse si differenzia per una miseria ancora maggiore, se il parroco don Francesco Pepino e sua madre, poveri anch’essi, decidono di prenderselo particolarmente a cuore, facendogli da padrino e da madrina di battesimo. E che questo ruolo non si riduca per loro semplicemente ad un nome scritto sui registri parrocchiali lo dimostrano concretamente, tanto per dire anche dandogli da mangiare. Parlando del padrino il ragazzino riconosce che “mi ha insegnato il catechismo, mi ha fatto scuola, mi ha vestito, mi ha mantenuto”, come a dire che tutto gli deve, a cominciare dall’istruzione che dopo la terza elementare da lui ha ricevuto in canonica, permettendogli di raggiungere la licenza elementare, per nulla scontata in quel tempo, a quell’altitudine e in simili condizioni di povertà. Ovviamente, studiando solo d’inverno, perché nella bella stagione bisogna star dietro ai genitori nei lavori dei campi e Francesco non si tira indietro, con l’unico diversivo di leggere anche quando è al pascolo e imbattendosi così nelle “vite” di Michele Magone e Domenico Savio, scritte da don Bosco. Soprattutto “il mio caro Magone” gli fa sognare di poter anch’egli entrare nell’Oratorio di don Bosco, cambiare vita, diventare migliore e - perché no? - essere un giorno prete. È ancora don Pepino a dargli una mano per realizzare questo sogno, diversamente irrealizzabile per un ragazzo povero come lui. Scende da Argentera verso Torino il 1° agosto 1863 insieme a papà, con un piccolo fagotto, ma preceduto da una bella relazione, con cui il parroco ha illustrato a don Bosco tutte le sue belle qualità. Con il passar degli anni, infatti, è diventato il suo braccio destro nel servire messa, guidare le preghiere, insegnar catechismo ai più piccoli, guadagnandosi la stima del paese per il rispetto che ha verso i genitori, per la sua laboriosità e religiosità, anche se, a causa di quest’ultima, alcuni compagni lo deridono, dandogli del “fratino” e del “bigotto”. Il giorno successivo mette piede nell’Oratorio dei suoi sogni e un po’ di tempo dopo incontra don Bosco, in modo casuale e nel luogo più “salesiano” che ci sia, cioè in cortile. Al Santo non passa inosservato “un giovane vestito alla montanara, mediocre di corporatura, di aspetto semplice, con il volto coperto di lentiggini e gli occhi spalancati a guardare i suoi compagni che giocano”. Poche battute sono più che sufficienti per don Bosco a valutare positivamente il suo nuovo “acquisto”: gli bastano le parole di riconoscenza del ragazzo nei confronti di don Pepino per i benefici da lui ricevuti, perché, scriverà il Santo, “è comprovato dall’esperienza che la gratitudine nei fanciulli è segno sicuro di un felice avvenire”. Raccoglie anche il suo desiderio di studiare per diventare prete e gli regala la sua regola pedagogica, semplice, ma dall’effetto sicuro: “Allegria, Francesco. Poi studio. E infine la pietà, cioè la cura della preghiera e dell’amore verso gli altri”. Il ragazzo, da parte sua, “ruba” a don Bosco la massima “Ogni momento di tempo è un tesoro”, che subito cerca di mettere in pratica, a cominciare dallo studio, riuscendo in soli due mesi a passare in seconda Ginnasio. Il clima dell’Oratorio favorisce ed esalta lo stile di vita già ammirato ad Argentera: lo vedono pregare intensamente, giocare in modo appassionato, incitare al bene i compagni, cercare mortificazioni anche corporali, severamente vietate dal Regolamento, ma che sono il suo modo per dimostrare tutto il bene che vuole a Gesù. Non si accorgono così che, per “fare penitenza”, in quel primo inverno all’Oratorio non si copre a sufficienza, e che anzi toglie anche la coperta invernale dal letto. Lo trovano intirizzito la mattina del 3 gennaio, senza la forza di alzarsi da letto e il medico, chiamato d’urgenza, diagnostica la polmonite. Lo dà per spacciato quattro giorni dopo e Francesco esala l’ultimo respiro la sera del 9 gennaio 1864, sussurrando: “Muoio col rincrescimento di non aver amato Dio come si meritava!”. Evidentemente, era solo una sua sensazione.