Francesco Convertini

Testimoni del Risorto 11.02.2015

Ha sempre avuto dei conti in sospeso con l’aritmetica e l’ortografia, per non parlare poi della sua quasi assoluta incompatibilità con la metafisica, per cui il suo curriculum scolastico diventa una vera e propria corsa ad ostacoli. E questo spiega, almeno in parte, perché arrivi all’ordinazione sacerdotale soltanto a 37 anni. È nato in un trullo di Cisternino il 29 agosto 1898 e viene allevato a pane e olive; a 3 anni perde il padre e a 11 la madre, ma sbaglia chi da ciò deducesse che Francesco Convertini non è nato sotto una buona stella. Prima di tutto perché mamma fa in tempo ad insegnargli a recitare il rosario e a sussurrargli “Metti amore, metti amore” ad ogni cosa che fa; poi perché, quando è orfano di entrambi i genitori, viene “affittato” (come si usava allora) da una giovane coppia ancora senza figli da cui riceve tanto amore e che lui si abitua a chiamare “mamma” e “papà”. La prima guerra mondiale lo manda al fronte senza spiegargli bene il perché e finisce in un campo di prigionia polacco a patire la fame. Liberato alla fine della guerra, si becca la meningite e viene in isolamento a Cuneo, dove rischia seriamente di morire. A pericolo scampato si innamora di una brava ragazza del paese e con lei fa progetti di matrimonio, in vista del quale mette la firma nella Guardia di Finanza per un triennio, andando a Trieste, Pola e infine a Torino, senza sapere che proprio qui lo aspetta don Bosco. Gli si avvicina per caso, andando a confessarsi nella chiesa di Maria Ausiliatrice, dove trova don Amadei, che lo fa innamorare di don Bosco, ma che è conquistato da questo ragazzo tutto d’un pezzo, devoto ed onesto, al quale un bel giorno propone di essere missionario salesiano. Francesco va in crisi, anche per via della morosa, dalla quale si sente profondamente attratto; quando però si accorge che è quanto il Signore vuole da lui, non esita a fare il salto. A fine 1923 va a studiare ad Ivrea, dove i professori, pur abituati a vocazioni adulte e culturalmente zoppicanti, con lui devono chiudere più di un occhio per farlo andare avanti. Nel 1927 è destinato all’India, cui dedicherà tutta la sua vita, restandovi per quasi 50 anni. Ancora deve sudare sui libri, fare il noviziato, misurarsi con la teologia, ma la sua scuola migliore è vivere a contatto con il salesiano don Vendrame (di cui pure è iniziato il processo di beatificazione), che gli insegna a fare il missionario, ma soprattutto a farsi santo. Dopo l’ordinazione è trasferito nella diocesi di Krishnagar, di cui è vescovo il salesiano monsignor Ferrando, che un giorno sicuramente troveremo sugli altari. Si tratta di una diocesi poverissima, con sei milioni di abitanti, metà musulmani e metà indù, sparsi in 12.500 villaggi e dove i cattolici rappresentano l’uno per mille della popolazione. Don Francesco riesce subito a farsi amare, perché l’infallibile fiuto della gente scopre subito in lui l’uomo di Dio: dopo aver faticato tantissimo sui libri di scuola, riesce subito a trovare la chiave dei cuori perché ha imparato perfettamente il linguaggio della tenerezza e lo stile della misericordia. Diventa così uno dei pochissimi missionari che possono entrare in una casa indù e spingersi oltre la prima camera d’ingresso, quasi fosse uno dei loro, perché tutti sono onorati di averlo come amico e la sua benedizione, anche per i non cattolici, è garanzia per tutti della benevolenza divina. Lo stesso buon Dio sembra preoccupato di confermare con piccoli e grandi segni la santità di quel suo umile operaio e così il pellegrinaggio di don Francesco da un villaggio all’altro, sempre rigorosamente a piedi, è disseminato di malati guariti e addirittura di un morto risuscitato, oltre che di tigri fameliche che si scansano per lasciarlo passare. Torna in Italia due volte, restando profondamente scandalizzato del pane che finisce tra i rifiuti, mentre in India i suoi bambini muoiono di fame. L’ultima volta in ospedale gli dicono che ogni giorno è regalato, tanto il suo cuore è stanco e malandato, e lo avvertono pure che il clima caldo e umido dell’India non è per niente adatto alla sua salute. Non si sa come, riesce a convincere i superiori a lasciarlo ripartire, perché vuole donarsi all’India fino alla fine e diventare poi “terra indiana”. Muore infatti pochi mesi dopo, l’11 febbraio 1976 e al suo funerale partecipano anche indù e musulmani. Tali sono anche stati molti dei testimoni al suo processo di beatificazione, perché tutti sono convinti che don Francesco è stato un grande sadhu, un monaco che ha portato nella loro terra la pace di Dio.