Pierre Claverie – 1

Testimoni del Risorto 28.02.2018

Lo fanno saltare in aria, piazzando un ordigno nel cortile del vescovado; naturalmente azionato a distanza, da vigliacchi qual sono, per evitare ogni rischio. L’esplosione dilania anche un giovane di fede musulmana, che ciò malgrado è molto amico del vescovo cattolico e gli fa da autista: ancora una volta, dunque, sangue musulmano si mescola a sangue cattolico, sempre che davanti al buon Dio abbia ancora senso una tal distinzione, visto che sempre di sangue umano si tratta. Siamo in Algeria, nel 1996 e, prima di questo musulmano, altri 150 mila suoi fratelli di fede han perso la vita con morte violenta, mentre la serie dei 19 martiri della Chiesa d’Algeria nel periodo 1994/1996 (religiose, religiosi, preti e fratelli, missionari, monaci), si chiude con lui, il vescovo Pierre Claverie. Di famiglia francese, trapiantata su suolo algerino da alcune generazioni, cioè un “pied noir”, come sono chiamati i francesi d’Algeria, nasce nel quartiere popolare di Bab el-Oued, ad Algeri, l’8 maggio 1938; respirando l’amore intenso, affettuoso, ricco di delicate sfumature dei suoi genitori, diventa un giovane e un uomo gioioso, generoso e straordinariamente predisposto per le relazioni umane, fino a diventare “martire delle relazioni con l’Islam”. Dato che, però, è ormai assodato che santi non si nasce, ma lo si diventa, bisogna riconoscere che neanche Pierre fa eccezione. “Non eravamo razzisti, soltanto indifferenti, ignoravamo la maggioranza degli abitanti di questo paese… Ho potuto vivere ventotto anni in quella che io adesso chiamo una ‘bolla coloniale’, senza neanche vedere gli altri”, scrive da uomo maturo, riconoscendo lo sforzo che ha dovuto fare per convertire la mentalità colonialista in cui vive la sua giovinezza, a contatto per forza di cose con i musulmani che gli vivono accanto, ma con la superiorità che gli deriva dalle sue origini francesi. “Mi sono chiesto perché, durante tutta la mia infanzia, essendo cristiano - non più di certi altri -, frequentando le chiese - come certi altri -, ascoltando dei discorsi sull’amore del prossimo, mai ho sentito dire che l’Arabo fosse il mio prossimo”, si lamenta quando ormai ha saputo fare “il grande passo verso l’altro”. Nel 1956 va a studiare matematica, fisica e chimica a Grenoble e questo non aiuta, anzi caso mai accentua la sua estraneità al mondo musulmano, anche perché la Francia non è per niente pronta ad accettare l’indipendenza che la “battaglia d’Algeri” sta cercando di ottenere. Eppure, proprio qui, “l’emergenza dell’altro, il riconoscimento dell’altro, l’aggiustamento all’altro diventano, per me, ossessioni” e comincia a nascere la sua vocazione religiosa, in risposta all’esigenza di “darsi fino in fondo”.  Entra dai Domenicani e nel 1965 è ordinato prete, ma la sua “conversione” può dirsi completata solo due anni dopo, quando chiede e ottiene di tornare in Algeria, che ormai ha conquistato l’indipendenza, “per scoprire il mondo nel quale ero nato, ma che avevo ignorato. Ed è qui che è iniziata la mia vera avventura personale, una rinascita”. Il primo passo da fare per entrare in questo mondo ancora per lui “nuovo” è possedere gli strumenti adeguati: Pierre si getta subito nello studio della lingua araba, impara l’islamologia e la cultura araba. La Chiesa algerina sta lavorando molto in quel periodo per aiutare il Paese a vivere nella nuova dimensione dell’indipendenza e Pierre è su questo fronte uno dei più attivi. Nominato direttore del centro diocesano delle Glycines, in Algeri nel 1972, è l’animatore e il coordinatore di una serie di iniziative, dalla scuola linguistica per l’arabo dialettale e l’arabo classico, alla biblioteca ben fornita sul Maghreb e il mondo arabo, dalle sessioni d’islamologia alle rassegne stampa mensili. Così, accanto ai preti e alle religiose, che si vogliono addentrare nel mondo algerino, studiano anche gli algerini che vogliono perfezionarsi in lingua araba: un ambiente in cui Pierre si trova pienamente a suo agio, aiutando due mondi a capirsi, ad apprezzarsi, a rispettarsi. “Scoprire l’altro, vivere insieme con l’altro, ascoltare l’altro, lasciarsi anche modellare dall’altro, non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori; significa concepire un’umanità plurale, non esclusiva”. In questa Algeria “che era il mio Paese, ma dove avevo vissuto da straniero tutta la mia gioventù”, Pierre, oltre all’arabo, “impara soprattutto a parlare e comprendere il linguaggio del cuore, quello dell’amicizia fraterna attraverso cui comunicano religioni e razze”.

(1 - Continua sul prossimo numero)