Pietro da Verona

Testimoni del Risorto 18.05.2016

Nessuno potrà mai dire se fu l’incoscienza o l’avidità ad armare la sua mano e a dargli il coraggio di compiere il delitto. Nel primo caso avrebbe semplicemente sottovalutato i rischi e gli imprevisti cui andava incontro; nel secondo, molto più probabile e sul quale sembrano concordare gli storici, altro non sarebbe stato che il solito arrivista, che per i tradizionali trenta denari si sarebbe prestato a diventare un assassino. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, a parte l’epilogo, che lo discosta radicalmente dal Giuda di evangelica memoria. Per tentare di ricostruire questa storia, curiosa e al contempo edificante, bisogna risalire al buio e sanguinoso periodo dell’eresia catara e alla conseguente inquisizione, con cui la Chiesa cerca di arginare l’emorragia di fedeli, che dalla “vera” fede transitano nei movimenti ereticali, e non è certo mistero per nessuno che molto spesso questi interventi “correttivi” non furono, per usare un eufemismo, incruenti e neppure misericordiosi. Spostiamoci comunque al 1252, quando Inquisitore di tutta la Lombardia è Pietro da Verona (al secolo Pietro Rosini), un frate domenicano nominato da Papa Innocenzo IV. I frati Predicatori, insieme ai Francescani, rappresentano il più saldo avamposto cattolico contro le eresie dilaganti, tanto che fin dal 1228, per disposizione papale, il convento domenicano di Sant’Eustorgio a Milano è diventato la sede dell’inquisizione lombarda. Padre Pietro, priore del convento di Como, è, ovviamente, di provata fede e di vita integerrima, ma con il difetto “originario” di avere una famiglia catara alle spalle: per questo si è attirato l’odio di tutti i catari locali, che non gli perdonano il “voltafaccia” né tantomeno il suo ruolo di inquisitore. Ed è in questo clima di odio che matura la decisione di eliminare lui e Raniero Sacconi, altro cataro, convertito dallo stesso Pietro e diventato anch’egli domenicano. Ad incarnare il complotto ed a finanziare l’intera operazione, insieme al manicheo Giacomo Leclusa, è un tal Manfredo Olirone, che trova un sicario adatto nel contadino Carino di Balsamo, al quale fissa un compenso di 25 monete “milanesi”. “Adatto” al compito perché spregiudicato, avido e feroce, Carino è però altrettanto sfortunato e anche un po’ maldestro. A cominciare dalla scelta del complice, un certo Albertino che appartiene alla serie di quanti sarebbe meglio perdere che trovare, e soprattutto con il lasciarsi sfuggire la vittima sotto il naso. Dopo aver spiato attentamente, sotto le mentite spoglie di un mendicante, i movimenti di padre Pietro nel convento di Como e pur sapendo che sarebbe dovuto partire per Milano, non si accorge della sua partenza e deve rincorrerlo. Avrebbe bisogno di un cavallo, però Manfredo si rifiuta di prestarglielo per paura che tramite la cavalcatura si possa risalire a lui come mandante. In modo avventuroso, e certamente faticoso, riesce in qualche modo a raggiungere e addirittura a superare il frate, che ha avuto il “torto” di fermarsi a celebrare messa, tendendogli così l’imboscata lungo la strada che attraversa la foresta Barlassina, in prossimità dell’attuale città di Seveso. La sfortuna che perseguita Carino fa sì che il complice Albertino non solo fugga sul più bello a gambe levate, ma che finisca anche, probabilmente dilaniato dal rimorso, per dare in qualche modo l’allarme, mentre lui, per non smentire la sua fama di “duro”, si accanisce con il suo falcastro (una roncola usata all’epoca, con una lama particolarmente tagliente) su Pietro, al quale spacca il cranio, e sul confratello che lo accompagna, e che morirà sei giorni dopo a causa delle ferite riportate. Esempio di fede indomita, che non trema neppure di fronte alla morte, Pietro prima di chiudere gli occhi fa in tempo a recitare il Credo con la poca voce che gli rimane ed a tracciare sul terreno la parola “credo”, intingendo il dito nel proprio sangue che gli cola dalla fronte. Una professione di fede in piena regola, che fa di Pietro un vero martire, tanto che neppure un anno dopo, precisamente il 25 marzo 1253, viene canonizzato dallo stesso Papa Innocenzo che lo aveva voluto inquisitore. La sua morte eroica ha contribuito a diffonderne il culto e ha sollecitato la fantasia degli artisti (uno fra tutti il beato Angelico), dando vita a una ricchissima iconografia.

(1 - continua)

NELLA FOTO San Pietro Martire: raffigurazione pittorica (forse l’unica in diocesi) presente nella chiesa parrocchiale di San Vittore (Fossano)