fra’ Luigi Lo Verde

Testimoni del Risorto 01.03.2017

Dicono abbia l’argento vivo addosso, a giudicare da come salta, corre e si arrampica sugli alberi, né più né meno di tutti i ragazzi sani della sua età. Qualcuno, anzi, lo definisce anche un po’ monello, se per tale si intende chi brilla per vivacità e voglia di scherzare. Nasce in Tunisia nel 1910, dove i genitori sono emigrati da Palermo per cercar lavoro, il padre come costruttore e la madre con il suo negozio di generi alimentari, ma ad appena pochi mesi fa ritorno nella città di origine con tutta la famiglia. Qui impara presto a conoscere Gesù, perché l’ambiente in cui vive è profondamente religioso e lo accompagna a ricevere Prima Comunione e Cresima a poco più di sei anni. A far la differenza sui suoi compagni è piuttosto quella sua naturale predisposizione alla preghiera solitaria e silenziosa, spesso a contatto con la natura davanti alla quale si incanta. Così nessuno si stupisce e nessuno si oppone, quando a 12 anni annuncia di voler entrare in seminario, anzi lo indirizzano prima tra i chierichetti della Cattedrale di Palermo, poi all’Oratorio San Filippo Neri, ma in entrambi i posti resiste poco perché il ragazzino sembra diversamente attratto. Difatti, il giorno in cui gli mettono tra le mani una vita di San Francesco, non ha neppur bisogno di leggerla tutta perché arrivato appena a metà libro già esclama: “Basta, questo è il mio posto”.  All’idea che diventi frate papà si adatterebbe, mamma no, perché troppo legata a quel suo figlio più piccolo: è lui a strapparle il consenso, lasciandole una letterina sotto il piatto il giorno della sua festa e mamma si commuove talmente da lasciarlo partire. A chi gli chiede il perché, risponde semplicemente: “Mi faccio religioso per farmi santo”. Il 15 ottobre 1922 entra così nel convento di Mussomeli e l’anno successivo indossa il saio francescano, per passare poi nel seminario francescano di Montevago presso Agrigento, senza dimenticare mai il motivo che l’ha portato in convento: “farmi santo, gran santo”. Dalla sua guida spirituale, il padre Catalano, arriva una preziosa testimonianza di quel periodo, con cui lo descrive “modello della virtù religiosa”, attestando che in quel ragazzo, che solo alcuni anni prima aveva l’argento vivo addosso, spiccano “l’obbedienza illimitata, la semplicità quasi infantile, l’amore alla santa Eucaristia, alla Croce, alla Vergine Madre”, ragion per cui “quanti l’avvicinano e lo vedono, anche secolari, ne restano ammirati”. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi: a nessuno sfuggono gli sforzi che il fraticello deve fare per controllare il suo carattere esuberante e dominare la sua indole inquieta ed effervescente. E che da questo suo sforzo quotidiano non derivi una personalità mortificata e contorta lo deduciamo dalla corrispondenza epistolare con le sorelle, dalla quale emerge invece tutta la felicità che gli sembra quasi di toccare con mano e che gli deriva dalla sua donazione completa, nel tentativo di “soddisfare il desiderio” che Gesù ha su di lui: farsi santo. A complicare l’ascesi di questo ragazzo speciale, prima dei 16 anni arriva una forte anemia, che lo lascia a lungo debilitato e incapace del minimo sforzo nello studio, anche per via di spietate emicranie. Si illuderebbe chi pensasse però che, così provato nel fisico, il fraticello si indebolisca anche nel suo fervore e nei suoi slanci spirituali, perché i superiori devono intervenire d’autorità per convincerlo a mitigare la sua penitenza e le sue lunghe ore di preghiera. La malattia intanto avanza, con brevissime tregue che gli servono per portare avanti gli studi, iniziare il noviziato ed emettere i primi voti a fine 1926. L’anno successivo ritorna a Mussomeli, dove attraversa un doloroso periodo in cui sente di essere “un deserto di aridità spirituale”; è perseguitato da incubi notturni e frequenti tentazioni, che rivelano la lotta delle forze del male per minare il desiderio di santità che sempre si è portato dietro. Contro gli incubi e i mostri spaventosi che vengono a turbare i suoi sonni reagisce a colpi di cordone e di Avemaria, aggrappandosi all’Eucaristia con una fiducia commovente. Ritornato nel convento di Palermo, dopo altalenanti riprese durante le quali riceve la tonsura e gli ordini minori, la malattia lo abbatte definitivamente il 15 ottobre 1931, a casa sua, dove è andato a trovare i genitori. Costretto a letto per i successivi quattro mesi, si spegne dolcemente il 12 febbraio, sussurrando “Com’è dolce il passaggio per il Cielo!”. La Chiesa nel 2016 ha sancito la sua venerabilità e presto potremmo vedere sugli altari fra’ Luigi Lo Verde.