Fratel Ettore Boschini

Testimoni del Risorto 25.06.2014

Un po’ matto lo era: come tutti i santi, a cominciare dal fondatore del suo Ordine, Camillo de Lellis, entrato spesso in conflitto con le autorità religiose del tempo per il suo stile “scandaloso” di prendersi cura dei malati. Inevitabile, dunque, che anche fratel Ettore Boschini, quattro secoli dopo, abbia dovuto incontrare contrasti ed opposizioni nel suo originale tentativo di reinterpretare il carisma camilliano. Nasce nel 1928 a Belvedere di Roverbella, in provincia di Mantova, in una famiglia di contadini agiati, rovinati dalla carestia, per colpa della quale, ad appena 10 anni, è già garzone di stalla nelle cascine altrui. Con la guerra la situazione si fa ancor più tragica, costringendolo ad andare “a giornata” ovunque c’è bisogno di manodopera. Finisce per lasciarsi contagiare dai vizi dei compagni di lavoro e di svago e la sua adolescenza è ricca di ragazze e di bestemmie, tanto che gli amici inventano per lui un gioco nuovo: trenta bestemmie, trenta centesimi di premio. Si converte in modo improvviso durante un pellegrinaggio, a fine guerra, ad un santuario mariano e da quel momento la Madonna diventa l’unico amore della sua vita. Ha una salute fragile, un’ernia del disco che lo tormenta, una voglia incontenibile di consacrarsi a Dio: decide così di entrare nei Camilliani, perché “curano i malati”. Per 25 anni è in corsia: prima all’ “Alberoni” di Venezia, dove si curano le malattie ossee, poi a Predappio insieme ai malati psichici, infine a Dimaro, dove ha un crollo psico-fisico a seguito del quale deve prendere una pausa di riflessione, a testimonianza di quanto sia sfibrante vivere a contatto con la sofferenza altrui. I superiori lo assegnano quindi alla clinica San Camillo di Milano, senza sapere che così facendo gli fanno inaugurare una promettente e quantomai ricca “stagione milanese”. Comincia, nei ritagli di tempo, a portare pentoloni di minestra ai barboni che hanno come punto di riferimento la stazione Centrale di Milano, ma è nella notte di Natale 1977 che la sua vita cambia radicalmente. Va al dormitorio pubblico con un po’ di panettoni e qualche bottiglia di spumante, per una festa di Natale improvvisata, ma che lascia il segno; fratel Ettore quella notte cede le sue calze e le sue scarpe ad un barbone dai piedi quasi congelati e dal giorno dopo i senzatetto di Milano diventano la sua vera famiglia. Per loro apre il primo dormitorio nei sotterranei della stazione milanese, nei locali ottenuti per gentile concessione del capostazione. Poi, a poco a poco, si organizza e si amplia: dormitori, mense, dispensari, pronta accoglienza a Milano, Seveso, Bucchianico, Grottaferrata e, quando l’Italia non gli basta più, anche a Bogotà, in Colombia, perché i “poveri più poveri” ci sono dappertutto. Anche gli ambiti d’intervento si ampliano, al ritmo delle nuove povertà: dai barboni ai malati di Aids, alle prostitute dell’Est, agli stranieri, magari irregolari, che devono vivere nell’ombra. Fratel Ettore è testardo nelle sue idee, spregiudicato nelle scelte, discutibile sui metodi. Per fortuna la Provvidenza lo toglie d’impiccio ogni volta (e capita spesso) che fa il passo più lungo della gamba, con donazioni anche consistenti, perlopiù anonime, a volte superiori alle sue necessità. E in questi casi Ettore dà via il superfluo per le necessità del mondo, dai terremotati agli sfollati della Bosnia in guerra, in modo da restare, come prima, senza un soldo in tasca. E così ricominciare il mattino dopo a confidare nella Provvidenza, insegnando ai suoi poveri a prendersi cura dei “più poveri” e portandoli anche a lavorare dove c’è un’emergenza o una calamità. Il “folle di Dio”, come viene chiamato, ha un filo diretto con il buon Dio: basta vedere come prega e come parla di Lui, anche se qualche prete milanese arriccia il naso sul suo stile liturgico o sulle sue nozioni teologiche. Fa discutere anche il suo amore per la Madonna e a qualcuno non piace il suo passeggiare per Milano con la statua della Vergine tra le braccia o ancorata sulla capotte della sua sgangherata automobile, la sua contestazione nelle manifestazioni abortiste, quel suo intonar preghiere in piazza o agli angoli delle strade. Lo uccide una leucemia fulminante il 20 agosto 2004, senza lasciargli il tempo di far germogliare una congregazione religiosa per dar continuità alla sua Opera. Che comunque continua a camminare e in questi giorni ha dato il via ad una serie di iniziative per ricordare il decennale della morte, mentre in diocesi dal 2013 si muovono i primi passi per la sua beatificazione.