La fatica e la sofferenza del “Camminare insieme” – 3ª parte

Il cardinal Michele Pellegrino a A Radio Vaticana

“Manifesto” di Pellegrino-vescovo e suo programma episcopale è la sua lettera pastorale “Camminare insieme” del 1971, in cui aiuta la sua diocesi a riscoprire la missione evangelizzatrice nei valori cristiani di “povertà, fraternità, libertà” e la “scelta preferenziale dei poveri” che egli da tempo ha compiuto e che il Concilio gli chiede di attuare a livello diocesano in modo concreto. La vasta eco e il successo editoriale di questa Lettera sono almeno pari alle contestazioni che suscita, perché di essa, come ha ricordato Ezio Bianchi, “si fece subito un’interpretazione politicizzata, fortemente riduttiva e, simmetricamente, si levò una contestazione sempre più ossessiva nei confronti del suo episcopato” che gli procurò sofferenza intensa, solo in parte mitigata da una lettera autografa con la quale Paolo VI in persona esprimeva “compiacenza per la lettera pastorale, (...) scoprendo il cuore pastorale da cui questo documento trae la sua sapienza e la sua aderenza all’insegnamento evangelico e alle condizioni del popolo di Dio e del mondo in cui vive sommerso”, con il dichiarato scopo di “confortare il venerato pastore nella fatica del suo grave ministero”.
In effetti Pellegrino pagherà il suo coraggio evangelico e il suo ardore profetico con un progressivo isolamento e con una contestazione spesso dai toni rozzi e calunniosi, che faranno dire al priore di Bose: “Non eravamo preparati ad avere un pastore come Michele Pellegrino, eravamo impreparati ad avere un vescovo che credeva alla libertà e alla possibilità di una corresponsabilità ecclesiale, a un autentico «camminare insieme». Impreparati al suo metodo che chiedeva obbedienza intelligente e matura. Impreparati alla sua parola libera che non temeva i giudizi degli uomini, e mai cedeva alla menzogna”. Dimissionario nel 1977 per motivi di salute, si ritira nella canonica di Vallo Torinese. Morirà al Cottolengo di Torino il 10 ottobre 1986, dopo un calvario di quasi cinque anni in conseguenza di un ictus, che tra l’altro gli impedisce di parlare, ma non certo di dare testimonianza di sofferta ed eroica pazienza: “Mutus loquar Christum”, esattamente come il titolo dell’ultima sua meditazione a commento di un testo di Sant’Ambrogio, pronunciata poco prima dell’afasia. Dopo aver fatto dono delle sue cornee, secondo il suo desiderio trova sepoltura a Roata Chiusani, accanto ai genitori.
Non può certo avere pretese di completezza ed esaustività un profilo biografico come questo e per l’approfondimento si rimanda alla corposa bibliografia esistente, tra cui va segnalata, almeno per gli anni giovanili che più si intrecciano con la storia della nostra diocesi, la preziosa ricerca compiuta dal centallese Alessandro Parola. Profilo che, però, non può concludersi se non almeno menzionando tre suoi aspetti, più attinenti al “taglio” di questa rubrica, cioè la santità (che mai si misura sulla base del consenso e dell’approvazione umana). Il primo è indubbiamente la preghiera in cui, diceva, “il vescovo deve essere, tra i membri della sua Chiesa, il primo”, confidando che “quando scendo nella cappellina per la preghiera del mattino (...) in quel momento mi sento vescovo non meno di quando vado in visita pastorale e ricevo preti o laici. Anche perché penso che quando mi tocca di parlare, ascoltare, discutere, decidere, mi è difficile dire poi se faccio bene o se faccio male; ma quando prego sono certo di fare una cosa giusta”. Il secondo è l’umiltà, che, secondo Enzo Bianchi, in lui “si esprimeva nella sua ricerca intellettuale e spirituale, nel rifiuto di essere chiamato «eccellenza», nel suo vestire in modo dimesso e povero come nel suo rapporto con il cibo, ma anche nel suo rifuggire inaugurazioni e cerimonie ufficiali, nel suo declinare doni e privilegi”, e che gli faceva dire, a chi gli chiedeva tre chiavi per il nuovo millennio: “Ricordati che la prima cosa è l’umiltà, la seconda è l’umiltà, la terza è l’umiltà. Ma vorrei aggiungere, con l’umiltà, la speranza!”.
Infine, ma non per ultima, la povertà, che a volte esprimeva anche in toni paradossali, massimalisti, portati all’estremo, che si traducevano in stili di vita sicuramente evangelici, per certi versi anticipatori di quelli di Papa Francesco, ma anche da “bastian côntrari”, come egli stesso riconosceva e che lo portarono, in occasione della nomina a cardinale del 1967, a chiedere al Vaticano un “alleggerimento” del guardaroba previsto per tale carica, mentre l’indispensabile, dopo il primo utilizzo, ebbe una destinazione ben diversa, narrata con ironia da Pellegrino stesso: “Le scarpe rosse, usate forse una volta nella luna di miele, aspettano a Roma l’acquirente (allora le pagai 20.000 lire), custodite rispettosamente in una scatola di cartone. Il ferraiolone fu trasformato in una bella casula, il falso ermellino in un copriletto e le mozzette in gonne. A una che la indossava le amiche espressero la loro ammirazione: “Che magnifico rosso-cardinale!” Spero che la proprietaria non abbia violato il segreto”.

(3-fine)