Beato Oddino, così lontano così vicino (2ª parte)

beato Oddino Barotti 2

Durante questa pausa, o periodo sabbatico che dir si voglia, gli si offre l’opportunità di aderire con un gruppetto di amici ad un pellegrinaggio a Roma, naturalmente a piedi, con tappa a Loreto. Si tratta di un’esperienza forte, un vero e proprio ritiro spirituale itinerante, al ritorno dal quale gli viene però notificata la censura del vescovo per aver celebrato nei territori pontifici (cioè sotto la giurisdizione di Urbano VI, il che conferma che il presule è fedele all’antipapa Clemente VII), ma la cosa non ci deve né scandalizzare né turbare, perché – annota argutamente il già citato Muratori – “non v'è mai stato scisma alcuno, in cui abbiano i popoli avuta tanta ragione di dubitare, come in questo, essendovi sì varie opinioni tra più celebri dottori, e uomini santissimi nell'uno e nell'altro partito”. Difatti il vescovo in questione, Giovanni Orsini, che occupa il 54° posto nella cronotassi dei vescovi torinesi, ha goduto di profonda venerazione nel 1400 ed è stato anch’egli insignito del titolo di beato, anche se il suo culto non è mai stato ufficialmente approvato. Il faticoso viaggio a Roma e le intense emozioni che lo hanno caratterizzato sembrano destare in Oddino lo spirito del pellegrino. Una probabile (anche se non menzionata) tappa ad Assisi lo lascia poi affascinato dall’ideale francescano, di cui oltre all’abito da terziario finisce per adottare anche la spiritualità. E proprio come terziario intraprende pochi mesi dopo il suo secondo pellegrinaggio, questa volta in Terra Santa. Che a quell’epoca non vuol dire compiere un semplice e comodo seppur devoto itinerario spirituale, tante sono le incognite e i pericoli di un viaggio lungo e defatigante, dal quale non sempre si ritorna.

Ad attirarlo è la sua profonda devozione alla Passione di Gesù, con il desiderio di tornare alla fonte, cioè là dove la Passione di Gesù si è consumata e dove egli vuole rinvigorire la sua fede. Non ha fatto però i conti con i Turchi, che lo fanno prigioniero e gli riservano pochi riguardi e tante sofferenze. Liberato, torna a Fossano, dove si vedono subito i frutti di questo sofferto pellegrinaggio: moltiplica le preghiere, le penitenze e le opere di carità, trascorre lunghe ore in meditazione davanti al crocifisso, vive poveramente, privandosi anche del necessario per vivere. La gente è ammirata, ma anche preoccupata, del suo stile di vita, perché mangia lo stretto necessario per sopravvivere: un po’ di pane e qualche verdura. Eppure, non c’è verso di fargli ingoiare qualcosa di più, perché tutto quanto gli regalano, perfino le pietanze già cotte, finisce invariabilmente nelle case della povera gente. Come quel cappone regalatogli per il pranzo di Natale, che egli si vergogna di mangiare da solo, mentre famiglie intere non hanno neppure l’indispensabile: lo fa così recapitare ad una povera donna, che ha partorito da pochi giorni, e il suo inserviente, incaricato della consegna, viene guidato all’indirizzo giusto da un cagnolino. Interviene allora il vescovo che da un lato si rallegra per la sua avvenuta liberazione dalla prigionia dei Turchi, ma dall’altro “nonostante ogni voto, o promessa” comanda, “avuto riguardo al vostro stato presente, di mangiar carne e grasso”.

Non sappiamo se in questa occasione abbia ubbidito al suo vescovo o se abbia continuato con il suo menù vegetariano appena sufficiente a tenerlo in piedi, come molte testimonianze riferiscono; certo è che la Terra Santa lo ha profondamente rinnovato interiormente, aggiungendo rigorosa penitenza e nuovo fervore al suo tenore di vita. “Tenetevi codesta mia decima, e servitevene pe' vostri bisogni del corpo, ma non in altro; so, e vedo esservi ciò molto necessario”, gli scrive in un’altra occasione il vescovo, vietandogli di utilizzare quei soldi per la costruzione dell’ospedale o nell’acquisto di libri, ma soltanto per il suo vitto e i suoi vestiti. Mentre rivela uno spirito veramente paterno del vescovo nei suoi confronti, questa lettera “nei suoi consigli o nel suoi rimproveri è il più bell'elogio che si possa fare ad Oddino, poiché da essa si scorge come egli fosse alienissimo dal tesoreggiare, come fosse amante dei libri e della istruzione come fosse caritatevole verso i bisognosi sino a privarsi del necessario, come fosse operoso”, anche dimostrando che ormai non è più mistero per nessuno l’estrema indigenza di Oddino, fattosi povero per i poveri del suo tempo.

(2-continua)