La chiesa cattolica in Mongolia, intervista al neo vescovo cuneese Giorgio Marengo

Giorgio Marengo Vescovo

La Mongolia è un paese che padre Giorgio Marengo ha raggiunto col primo gruppo di missionari della Consolata inviati in quella nazione, appena due anni dopo la sua ordinazione sacerdotale avvenuta nel 2001. Un paese di cui ora gli è stata affidata l'intera responsabilità pastorale, avendolo, Papa Francesco, nominato Prefetto Apostolico con carattere vescovile di Ulaanbaatar (la capitale). Cuneese di origine, ma torinese di adozione, il neovescovo ha ricevuto l'ordinazione episcopale nella Basilica Consolata di Torino l'8 agosto scorso per imposizione delle mani del card. Luis Tagle, prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli. Dopo quella data la permanenza in Italia di padre Giorgio (come si fa ancora chiamare) ha continuato ad essere segnata da un'agenda fitta di impegni, tra cui l'incontro con Papa Francesco a Roma (il 12 agosto scorso), e con amici e conoscenti della provincia Granda a Fontanelle di Boves e alla Certosa di Pesio. Proprio in questa occasione lo abbiamo incontrato per parlare della sua esperienza missionaria e dei cambiamenti in atto nella sua vita, in una terra dove la presenza cattolica conta 1300 battezzati su una popolazione di 3 milioni e mezzo di abitanti. “Un luogo - ha affermato - dove c'è bisogno della testimonianza dei missionari e della Chiesa”.

Quali sono state le difficoltà iniziali ad operare in Mongolia?
Siamo arrivati, come primo gruppo di missionari e missionarie della Consolata, in un giorno d'estate del 2003, e inizialmente avevamo preso due alloggi in affitto nella capitale. Non avevamo un programma predefinito, se non la preghiera e la costruzione di una fraternità fatta di aiuto reciproco. La nostra priorità era quella di inserirsi e capire, con i pochi altri missionari che già erano nel territorio, come si sarebbe configurata la nostra presenza in Mongolia. Le difficoltà iniziali sono state l'apprendimento della lingua, la vita in un condominio (con persone con cui non riuscivamo a comunicare, non sapendo ancora il mongolo), e poi i problemi climatici (la temperatura invernale scende fino a 40 gradi sottozero). Dopo i primi tre anni ci siamo spostati in una zona rurale (Arvaiheer), e lì è stato come ricominciare tutto da capo. Non c'erano più i missionari di altre famiglie religiose, dovevamo cavarcela da noi per ottenere i permessi delle autorità locali e superare tutte le difficoltà burocratiche del paese.

Perché andare missionari proprio in un paese come quello, in confronto ad altri che sembrerebbero più bisognosi di aiuto?
Intanto perché tutti abbiamo bisogno del vangelo; poi soprattutto noi, missionari e missionarie della Consolata, ci impegniamo a portarlo laddove la Chiesa non è presente, o lo è in maniera minima. La Mongolia rappresentava, per il nostro Istituto, un desiderio di essere nuovamente presenti in Asia (dopo aver stabilito la nostra prima missione in Corea del Sud), con una chiesa che sostanzialmente è nata nel 1992.

Quando i suoi superiori le dissero che sarebbe stato destinato in Mongolia, che cosa ha pensato?
Sono davvero stato molto felice! Finivo in quegli anni la mia formazione al sacerdozio e nel 2002 il master in missiologia, quindi ero pronto a ricevere una destinazione. Ed era il periodo in cui l'Istituto della Consolata stava pensando di aprire una missione proprio in quella nazione. Io avevo già maturato una certa predilezione per l'Asia, per cui quando hanno chiamato anche me nel gruppo dei missionari in partenza ho accettato volentieri.

A parte l'aspetto spirituale, che attività svolgete in quella missione da un punto di vista umano e sociale?
La Chiesa cattolica, fin dagli anni '90, con l'arrivo dei primi missionari, si è molto impegnata nel campo della promozione umana. Direi che la sua priorità è stata proprio quella di rivolgersi a chi era più nel bisogno e nella sofferenza. E, nell'ambito della Consolata, la scelta è stata quella di operare in semplicità, senza mettere in piedi strutture gestionali impegnative, ma servendo i poveri con la nostra, altrettanta, povertà. Anche se il governo chiede però alla Chiesa cattolica (che è riconosciuta come Ong, ed è composta da cittadini stranieri) di dare del lavoro regolarizzato ad un numero prefissato di persone del posto. Una richiesta che non è così facile mantenere, data la natura innanzitutto religiosa della Chiesa.

Intervista completa su La Fedeltà del 26 agosto