Le mille lire al mese di padre Mina e il centuplo (3ª parte)

Mina Padre Giuseppe
padre Giuseppe Mina, parrocchia Salice, settembre 2000

«Dal 1970 le vocazioni vennero in pochi anni ad esaurirsi. Eredità del '68? Non so, ma la sede dei fratelli coadiutori pian piano divenne l'attuale Casa "Beato Giuseppe Allamano". Ospita padri e fratelli anziani, tra cui ci sono anch'io». Così, molto semplicemente, padre Giuseppe Mina annuncia il suo ritorno ad Alpignano, nella casa che ha costruito con l'entusiasmo e l'intraprendenza dei suoi quarant'anni. Non più come direttore, questa volta, ma come ospite, gravato dal peso degli anni e dei malanni. «Non ho fatto alcuna domanda di longevità – dice - e se Dio me l’accorda avrà un perché». Intanto gli anni scorrono inesorabili, nulla togliendo tuttavia allo smalto di questo missionario, inguaribilmente ottimista e perennemente allegro. «Il suo “Alleluja”, il suo incitare a “cantare e camminare” quanto lo sentivi per telefono o quando lo incontravi, ti dava un respiro al cuore, all’anima», scrive Cristina Siccardi, mentre un aspirante missionario lo ammira perché «chiunque entrasse nella sua camera per venirlo a trovare sperimentava la profonda serenità del suo sorriso, la sua capacità di piangere con chi piange e ridere con chi ride». Al Salice, dove nel 1992 ha già festeggiato i suoi 50 anni di messa, ritorna anche nel 2002, per celebrare le "nozze di diamante" con il suo sacerdozio generoso e contagioso. Due anni prima  gli è stato conferito il "premio Salice", «per aver portato ovunque nel suo cuore il borgo Salice, centro di fede e di ricordi».

Arriva poi il lento, cosciente declino, ancora e sempre condito di preghiera e ottimismo, che corrono anche sul filo del telefono o attraverso messaggi scritti, per raggiungere con regolarità i tanti amici che hanno costellato la sua vita. «Aveva una parola buona per tutti», ricorda ancora la Siccardi, «un sorriso affabile, una capacità sorprendente nell’utilizzare parole antiche e nuove, giocando con estrema naturalezza con il verseggiare lirico in una miscela di sapienza semplice e profonda allo stesso tempo». L'avanzare lento di sorella morte gli consente un sereno commiato da tutti, anche dal nostro giornale, di cui conserva «un ricordo che mi sa di casa». Gli toccano appena dieci giorni di letto, durante i quali a mancargli è essenzialmente la celebrazione della messa, prima di serenamente spegnersi, in modo improvviso ma non inaspettato, il 28 ottobre 2004, senza che gli manchi il tempo di ricevere prima la comunione, come nei giorni precedenti.

Fin qui la sua parabola terrena, che nei 93 anni in cui s'è dipanata quaggiù, non ha fatto a meno di intrecciarsi con quella, per certi versi molto simile, di una delle sue sorelle. Riteniamo che la nostra rubrica non possa esimersi dal farne almeno un cenno e non solo per il motivo che si tratta di un'altra vocazione sbocciata in casa Mina a servizio della missione nel nome della Consolata, ma soprattutto per il suo ruolo di gran "comunicatrice". Di sei anni più giovane del fratello, anche Rita nasce a San Lorenzo e a poco più di due anni si trasferisce con la famiglia al Salice; toccherà a lei, neanche due anni dopo, correre con gli zoccoletti in mano fino al duomo, per annunciare a nonna e al resto della famiglia la morte di papà. Cresce nell'ambiente sano e forte di una famiglia capace di "tirar cinghia" senza perder la fiducia nella Provvidenza e pure per lei sono fondamentali sia l'Azione Cattolica, che la equipaggia di una spiritualità autentica, e sia l'assistente don Pellegrino, che le spalanca vasti orizzonti e accende in lei la missionarietà.

Nel 1930, a 23 anni appena suonati, entra dalle Suore della Consolata nella Casa di Sanfrè, senza curarsi troppo di sapere le origini della Congregazione, paga soltanto che essa abbia come finalità principale la missione "ad gentes" e lieta «(chissà perché) che essa aveva un fondatore anziché una fondatrice che ai tempi si presentavano in immagini scialbe, con un velo severo in testa». Idee chiare fin dal principio, dunque, su quasi tutto, fuorché sulla vocazione missionaria: «già, perché non ero troppo convinta di averla» confesserà candidamente più tardi, «e altri con me erano dello stesso parere, anche se per discrezione non me lo dissero allora apertamente». Non c’è da meravigliarsi, perché Dio fa spesso di queste sorprese, essendo capace di tirar fuori figli ad Abramo anche dai sassi. Lo straordinario è invece che Rita (che assieme al velo ha preso il nome di suor Gian Paola), pur partendo da simili, non entusiasmanti, premesse, non solo abbia "trovato" la vocazione, ma sia pure diventata una tra le più fedeli ed entusiaste figlie e discepole del beato Allamano.

(3 - continua)