“Sono un prete da parrocchia”, a servizio di una Chiesa missionaria, diocesana, laicale

Per festeggiare il 50° di ordinazione sacerdotale di don Ezio Bodino, le parrocchie Duomo e San Filippo, si danno appuntamento in Cattedrale a Fossano, sabato 1° luglio, alle 18

Bodino Don Ezio 2022

Benché originario di Murazzo, “fossanese dalla testa ai piedi”, come ama dire di sé, don Ezio Bodino è stato consacrato sacerdote nella parrocchia di Sant’Andrea a Savigliano (dove la sua famiglia era intanto andata a vivere e dove suo padre era sagrestano), il 1° luglio del 1973, dopo aver frequentato il Seminario di Fossano. Cinquant’anni pieni di entusiasmo vocazionale senza ripensamenti (prestando anche un breve servizio missionario in Brasile), di cui ci ha parlato nella sua visione di Chiesa, parrocchiale e diocesana, a favore dei poveri, dei laici, e arricchita dal contributo dell’Azione Cattolica.

Per festeggiare il 50° di ordinazione sacerdotale di don Ezio Bodino, le due parrocchie del centro storico, Duomo e San Filippo, si danno appuntamento in Cattedrale a Fossano, sabato 1° luglio,alle 18, per la solenne celebrazione eucaristica (segue buffet).

Qual è stata la tua formazione per diventare sacerdote, e cosa ti ha spinto a diventarlo?

La mia vocazione si è fatta sentire fin da quando ero piccolino; già alle Medie pensavo che avrei fatto il curato. Credo che tutto questo sia dovuto fondamentalmente alla mia famiglia: umile, con una fede semplice, ma profonda. Dove la preghiera non mancava mai, tutti i giorni, con il Rosario recitato insieme. Poi gli anni del Seminario sono stati quelli storici della Chiesa del Concilio Vaticano II, in cui frequentavo il Ginnasio e il Liceo e in cui si respirava un’aria di novità. Con figure di preti che mi hanno accompagnato. A quel tempo abitavo a Savigliano, mio papà faceva il sagrestano a Sant’Andrea, quindi eravamo vicino ai preti, di cui ricordo ancora il primo parroco, l’abate Tommaso Gallo, che raccoglieva noi seminaristi, durante le vacanze, per un momento di preghiera quotidiana tutti insieme. E poi don Mario Salvagno e don John Berardo, parroco e viceparroco quando sono stato ordinato. Vivendo in una famiglia così, legata alla Chiesa, la mia vocazione è stata sempre più una conferma di quel sogno inizialmente quasi infantile, che ha poi avuto vari passaggi, fino ad arrivare allo studio della Teologia, dove la scelta è diventata definitiva.

Raccontaci dei tuoi impegni sacerdotali più importanti.

Sono stato per tredici anni, in due diverse tranche, curato al Salice, poi ho avuto alcuni incarichi di passaggio, e quindi due anni di missione in Brasile. Un periodo per cui, a causa di problemi politici di laggiù, non ho potuto rinnovare il visto, anche se per me sono stati due anni davvero molto significativi. Poi, al rientro, sono ritornato al Salice. E successivamente parroco per diciassette anni a Villafalletto, nove anni a Sant’Antonio e San Bernardo, e adesso da quasi cinque anni al Duomo e San Filippo. Per me, comunque, la realtà più importante è la parrocchia; io sono un prete da parrocchia, legato fortemente alle esperienze dell’Azione Cattolica, che mi ha accompagnato in tutti questi cinquant’anni di sacerdozio.

Nel tuo percorso c’è stata anche l’esperienza brasiliana: ora che si parla molto di “Chiesa in uscita” e di scambi di un prete da una diocesi ad un’altra, consiglieresti ad un giovane presbitero un servizio missionario al di fuori del proprio contesto diocesano?

Sono anni che ti maturano tantissimo e che hanno qualificato molto il mio modo di essere prete. Però, secondo me, dev’essere un’esperienza missionaria diocesana. All’epoca, infatti, i nostri preti “fidei donum” costituivano un’esperienza molto significativa per la nostra realtà locale. Erano parecchi (una decina) tra Brasile ed Argentina. Oggi la situazione delle nostre realtà è molto diversa, per cui, per i numeri ridottissimi dei sacerdoti, si fa fatica a starle dietro. Quella missionaria sarebbe un’esperienza stimolante, ma in questo momento la vedo di difficile realizzazione.

Aiuta però a guardare la Chiesa in una diversa prospettiva?

Sì, senz’altro! Io ho avuto la fortuna di essere in Brasile con padre Bruno, di vedere l’esperienza delle Comunità di base, la chiesa con i poveri, la chiesa del laicato. Il fatto poi di lavorare in Ac, dimensione laicale della Chiesa, è una di quelle caratteristiche proprie del mio essere nella Chiesa, e di stare vicino ai più fragili.

A proposito del laicato, quanto è importante che sia valorizzato al meglio?

Come dicevo, l’esperienza con l’Ac è quella che ha arricchito immensamente la dimensione parrocchiale della Chiesa, a sua volta legata alla dimensione dinamica diocesana, al laicato, e alla missione. Il ruolo del laicato nell’Ac è stata una scuola che mi ha insegnato ad essere prete con i laici, fin dai primi anni del mio sacerdozio. Infatti, negli anni in cui ero curato al Salice c’era l’Ac che operava alla grande, di cui mi avevano messo assistente (e lo sono ancora adesso). La dimensione del laicato non è poi limitata soltanto alla parrocchia, ma a suo servizio nella dimensione diocesana, camminando insieme come parrocchie della città (e in tante altre zone), e come realtà della Chiesa. Questa è una garanzia importante per il futuro, che in passato non si contemplava perché c’erano tanti preti in ogni singola parrocchia, e per cui non c’era ancora il discorso delle unità pastorali. Grazie all’Ac ho poi conosciuto tantissime persone anche a livello regionale e nazionale, che sono state per me un dono ulteriore.

Quanto dovrebbe cambiare la formazione di un prete per saper fronteggiare le problematiche attuali?

La realtà di oggi è certamente cambiata, anche se, avendo vissuto il Seminario negli anni del Concilio, in cui si respirava alla grande questa nuova dimensione, trovo che per certi versi questa sia stata addirittura dimenticata. Il Concilio infatti lo si conosceva, lo si ruminava insieme, mentre adesso rischiamo che sia una ricchezza riposta in un cassetto. Diciamo di viverlo, ma tante cose del Concilio stesso le abbiamo dimenticate, come per esempio lo stile di essere Chiesa.

Quali sono le difficoltà e le soddisfazioni nell’essere sacerdote oggi?

Alla soglia dei 75 anni uno si rende conto che testa, cuore e corpo invecchiano, per cui c’è la fatica di stare al passo con i tempi, in tutti i sensi, e un senso di inadeguatezza. Al tempo stesso però, ringraziando Dio che mi dona la salute, magari con meno responsabilità affidate maggiormente ai laici, credo che sarò ben contento di continuare a dare una mano per quello che sarà possibile. La soddisfazione è sicuramente quella di essere circondato dai laici (in tanti hanno partecipato ai campi da ragazzini e continuano ad essermi amici!).

E la comunione con gli altri sacerdoti è altrettanto importante?

Siamo di meno, con una realtà più grande in cui “si corre come disperati” anche su più parrocchie, però, se si vuole, le opportunità per confrontarsi e camminare insieme ci sono.