Padre Pantaleone Palma – 2

Testimoni del Risorto 15.02.2017

Malumore, invidia, gelosia sono i sentimenti suscitati dalle volontà testamentarie di padre Annibale nei confronti del suo “delfino”, l’unica persona di sua fiducia cui affidava il futuro delle sue Congregazioni. Si sa da sempre che l’invidia è madre della calunnia e anche in questo caso non c’è eccezione. La “macchina del fango”, azionata da invidiosi confratelli e da alcune suore, subito si mette in moto, orchestrando un piano diffamatorio di chiaro stampo boccaccesco. Come succede in questi casi, si inizia infatti con l’addossargli responsabilità finanziarie e, dato che queste sono spesso insufficienti per distruggere un ministro di Dio, si prosegue con l’addebitargli infamanti accuse di comportamenti immorali. “Penso che il trattamento paternamente affettuoso del santo Fondatore nei miei confronti sia stato uno dei più forti motivi della gelosia di cui ora sono vittima”, scrive padre Palma, cui la buona coscienza di essere del tutto innocente rispetto alle accuse che gli vengono mosse non gli impedisce di sentirsi crollare il mondo addosso. Anche perché i calunniatori portano la questione all’attenzione della Congregazione vaticana per i Religiosi e poi addirittura davanti al Sant’Ufficio, che il 23 ottobre 1932 convoca padre Palma, aprendo di fatto un regolare processo contro di lui. “Dopo avere dato tutte le mie energie spirituali, morali e fisiche alle magnifiche Istituzioni del Canonico Di Francia, mi sono visto, all’età di 60 anni, fatto bersaglio di una indegna congiura per ragione di gelosia e a causa dello spirito di intransigenza con cui volli attuare il programma e i criteri direttivi che il Fondatore impresse alle sue Opere”, scrive amareggiato. A questo punto i calunniatori, accorgendosi forse di essersi spinti troppo oltre, ritrattano tutte le loro accuse, ma ormai è tardi. Con una superficialità e un’ottusità che stupiscono, dopo un processo sommariamente svolto a senso unico anche se dura un anno, il Sant’Ufficio emette una sentenza in effetti già scritta, forse addirittura già l’indomani della morte del fondatore: immediata estromissione di padre Palma dalla Congregazione, sospensione dai sacramenti e segregazione presso la Scala Santa di Roma, nel convento dei Padri Passionisti. “Offro tutto per il maggior bene della Congregazione dei Rogazionisti e delle Suore del Divino Zelo”, scrive con ammirevole forza d’animo, anche se è diventato irriconoscibile, soprattutto nel fisico, tanto è provato dalla situazione di cui è vittima. “Non ti affliggere per me. Iddio non abbandona mai nessuno di quelli che confidano in Lui. Ti posso assicurare che Nostro Signore se da una parte mi ha messo alla prova, dall’altra mi dà ogni giorno delle grazie proprio straordinarie…il Signore proprio giorno per giorno provvede per me”: è il suo tentativo di trovare conforto e sostegno nella fede, nonostante il suo fisico sembra volersi rifiutare di reagire e di sopportare il peso dell’ingiustizia che deve portare. I Passionisti si rendono conto della perla, pur se infangata, che è stata loro affidata ed altrettanto chi cerca in lui conforto e consiglio che egli, anche se “sospeso a divinis”, dispensa con generosità a chi ha bisogno di aiuto, respingendo come tentazione l’invito a lasciare Roma e tornare al paese: accetta le umiliazioni e le penitenze inflittegli e spera di trovar giustizia, perché, dice, “a nostro Signore tutto è facile. Egli in un momento cambia ogni cosa. Non abbiate paura: bisogna lasciar fare a Lui solo”. Pio XI in persona si attiva per concedergli almeno di poter riprendere a celebrare messa, come primo passo verso la riabilitazione completa: un desiderio che si realizza solo il 6 agosto 1935, nella festa della Trasfigurazione. Per padre Palma è un brevissimo istante di Tabor dopo gli anni di Calvario, perché neanche un mese dopo, il 2 settembre, il suo cuore cede all’improvviso ed è raccolto esanime davanti alla sua cella. Lo stesso giorno arriva dal Sant’Ufficio l’attestato con cui si riconosce la sua innocenza, ma è un documento che possono soltanto più posare sulla sua salma. “Chi visse tutta la sua vita per l’assistenza degli altri non trovò assistenza per sé; chi procurò agi e cure per migliaia di orfani non trovò agi e cure per sé; chi predilesse la carità, la virtù, la giustizia, non trovò carità, virtù, giustizia per sé né in vita, né in morte”, scrive quel giorno il suo confessore. Dopo 80 anni finisce anche la “damnatio memoriae” di padre Pantaleone Palma e tra breve inizierà il processo di beatificazione: il minimo che potessero fare.
(2 - fine)