La cura del creato accomuna i popoli

Il domenicano Claudio Monge (originario di Piasco) racconta la sua esperienza dalla città turca di Instabul

Claudio Monge

Claudio Monge è frate domenicano. Originario di Piasco, classe 1968, il suo maggiore impegno è nel dialogo tra cristiani e musulmani. Infatti, da 16 anni vive a Istanbul dove è parroco della chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo, è Superiore della comunità domenicana e responsabile del Centro domenicano per il Dialogo interreligioso e culturale, inoltre è consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso in Vaticano.

A partire dalla sua esperienza il dialogo interreligioso come si presenta? Qual è la strada da percorrere?
Poco più di un anno fa, ad Abu Dhabi, con il documento per una fraternità universale, firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, sono state date delle linee guida per il dialogo estremamente significative. Il primo principio irrinunciabile è che non può esistere un dialogo interreligioso senza un dialogo di umanità che si incontrano.
E non c’è dialogo d’umanità possibile senza comprendere che “Ogni essere umano, uomo o donna, non importa a che Paese, a che religione, a che confessione o a che rito appartenga, merita di essere rispettato nella sacralità della sua persona”.
La fratellanza di cui parla il documento di Abu Dhabi, non ha niente dell’uniformità forzata né del sincretismo conciliante, ma rispetta la differenza nella molteplicità di cui la pluralità religiosa è una delle espressioni. Questo rispetto si associa a un impegno senza sconti per la pari dignità di tutti gli esseri umani, creati a immagine di Dio.
La mia esperienza di dialogo al quotidiano sta proprio in questa sfida, che apre percorsi sorprendenti di mutua fiducia. Se pensiamo solo a difenderci alimentando il sospetto dell’altro e costruendo muri, quei muri imprigioneranno noi e i nostri sogni di futuro.

Quali consigli darebbe per intraprendere questo dialogo in Italia dove la situazione è l’opposto rispetto a quella che vive lei in Turchia, in cui sono i cristiani la maggioranza e i musulmani la minoranza?
Non credo che in Italia la sfida sia diversa, perché il dialogo, a partire dalle premesse che abbiamo appena posto, non è questione di equilibri tra maggioranze e minoranze statistiche, ma frutto dell’incontro di vite concrete.
Il vero dialogo, in terra d’Islam come in Occidente o in Italia non è una sorta di Cavallo di Troia per espugnare le fortezze dell’altro, ma un incontro che nasce dall’ascolto di ciò che l’altro ha da condividere, nella speranza che ci sarà data la possibilità di condividere, a nostra volta, quello che desideriamo offrire all’altro.
Se lasciamo gridare più forte i maestri della propaganda xenofoba e populista, che cavalcano un sovranismo a corte vedute, non potremo mai sperimentare il vero dialogo.

Haghia Sophia, UNESCO World Heritage Site, Sultanahmet District, Istanbul, Turkey, Europe
Santa Sofia, Istanbul (foto AFP/SIR)

Come giudica il fatto di Santa Sofia? Incrinerà i rapporti tra cristiani e musulmani?
La riconduzione di Santa Sofia a moschea non credo sia l’emblema della fragilità del cristianesimo e dell’aggressività dell’islam, come è stato detto da molti, ma della pericolosa strumentalizzazione politica della religione, per dei fini che sono tutt’altro che religiosi.
E basta conoscere un po’ la storia per constatare che questo capolavoro mondiale dell’architettura, non è mai stato esente da controversie e, tanto meno, simbolo pacificato di incontro e di dialogo e questo, in primis, al cuore della cristianità!
La questione non è tanto chiedersi se il dialogo ne subirà un contraccolpo, quando di rendersi conto che si rischia di perdere un laboratorio straordinario di questo dialogo possibile. Nella sua ricchezza Santa Sofia con i suoi simboli, coi suoi mosaici e con le sue decorazioni e le sue incredibili stratificazioni storiche, è un incrocio unico di stili e tradizioni religiose: conoscerle e riconoscerle è una vera palestra del dialogo. Depredarle e occultarle significa depotenziarle e svilirle nel loro significato! Ecco perché la musealizzazione di questo sito era e resta il modo migliore per preservarne la forza simbolica.

Sono nate nuove esperienze e nuove attenzioni alle disuguaglianze per fare fronte alla crisi sociale provocata dall’epidemia di Covid-19?
In Turchia come in molti altri paesi, la crisi pandemica ha originato innumerevoli lodevoli iniziative per ridurre un impatto sanitario e economico devastante.
Ma il timore è che questo non servirà più di tanto ad attenuare il carattere tutt’altro che democratico dell’impatto, anche a lungo termine, che la crisi avrà sulla forbice tra una maggioranza che sbarca il lunario e una piccola minoranza che coglie nuove occasioni di arricchimento.
I veri credenti, cristiani come musulmani, si interrogano su questa situazione ma non è facile per essi trasmettere in modo rilevante i valori che attingono dalle loro fedi. Il mondo medio-orientale, in cui la famiglia patriarcale resiste allo smantellamento che ha subito in Occidente, dimostra però l’insostituibile necessità di conservare o ritrovare delle reti di relazione umana, dove il prendersi cura, il vedere gli altri, il pensare al nostro comportamento in relazione agli altri, siano forme abituali dell’esercizio di una responsabilità sociale quotidiana e non solo in tempi emergenziali.
In fondo, si tratta di capire che la vita è fatta di rapporti e della cura che vi mettiamo.

In Turchia si parla di conversione ecologica o per adesso è solo un’attenzione sul quale sta discutendo solo il mondo Occidentale?
Come per molte questioni, bisogna fare un netto distinguo tra la Città-Stato di Istanbul (18 milioni di abitanti) e il resto del paese. Ad Istanbul, antica Costantinopoli, risiede ed opera il Patriarca greco ortodosso Bartolomeo I, che è stato tra i primi grandi sensibilizzatori sulla questione ambientale e sulla necessità di adottare nuovi stili di vita attenti al rapporto con un creato devastato dagli abusi dello sfruttamento umano.
C’è parimenti, una consistente riflessione teologica sulla necessità di una conversione ecologica, anche nell’universo islamico.
Il problema resta il livello ancora troppo di nicchia, di tali riflessioni, che si scontrano con la pratica quotidiana e un senso civico scarsamente sviluppato nei cittadini.
Qualcosa di nuovo, mi pare si stia muovendo, a livello di sollecitazione dell’educazione scolastica su questi temi, convinti che se non si inizia fin dalla tenera età, non ci potrà mai essere una vera inversione di tendenza e una implementazione delle pratiche virtuose.

Da martedì 1° settembre è iniziato il mese del Creato, tra musulmani e cristiani c’è un’affinità nel considerare e pensare la Creazione?
I sostenitori musulmani dell’eco-teologia, una comprensione della religione che si concentra sul suo rapporto con l’ambiente naturale, affermano che ci sia l’obbligo personale e spirituale di frenare la diffusione del degrado ambientale perché l’Islam riguarda non solo l’umanità ma anche la natura che la ospita.
Come per i cristiani, attribuire a Dio l’opera della creazione implica un mandato irrinunciabile, per i credenti, di preservarlo come dono ricevuto e non devastarlo come bene di cui si può disporre a piacimento. Inoltre, l’insistenza del Corano sull’ordine, la bellezza e l’armonia della natura implica che non vi sia alcuna demarcazione tra ciò che il Corano rivela e ciò che la natura manifesta.
Detto in altre parole: una natura devastata è deturpamento blasfemo della parola di Dio stesso. Dunque, direi che le premesse teologiche islamiche come cristiane sono decisamente favorevoli ad una conversione ecologica!
Purtroppo, le pratiche dei credenti non seguono sempre queste premesse.

 Francesco Massobrio (da La Guida)