Anna Kolesárová

Testimoni del Risorto 13.12.2017

La caduta di muri e cortine fa emergere, un po’ alla volta, atti di autentico eroismo e splendide testimonianze di fede che sarebbe stato un vero peccato non far venire alla luce. Perlopiù affidati alla tradizione orale, gelosamente tramandati di padre in figlio, questi “atti” dei nuovi martiri d’oltrecortina vengono oggi resi pubblici, facendo emergere forme di venerazione prima represse o accuratamente celate, che finalmente hanno libertà di esprimersi. È il caso di Anna Kolesárová, riscoperta e valorizzata spontaneamente dai giovani della sua terra ad oltre 50 anni dalla morte che hanno finito per far decollare nel 2005 il processo per la sua beatificazione, conclusosi nella fase diocesana nel 2012, entrando così nella “fase romana”, oggi non lontana dalla sua conclusione. Siamo nell’attuale Slovacchia, nei pressi della città di Michalovce e precisamente nel villaggio di Vysoka nad Uhom, dove Anna nasce il 14 luglio 1928, è battezzata il giorno successivo, e dove, ad appena 10 anni, deve assumere il ruolo di donna di casa, perché muore la mamma e il peso della famiglia ricade interamente su di lei, che dovrà far da madre anche a Michal, il fratello primogenito, di poco più grande. Anka, come affettuosamente viene chiamata in casa, si sobbarca un impegno gravoso, certamente superiore alle sue forze, che la costringe a crescere in fretta e ad abbandonare in anticipo i giochi della sua età.  Le testimonianze concordano nel riferire che ha una vita talmente scandita dagli impegni domestici, da non aver neppure il tempo di andare a trovare le compagne. Sono queste, allora, ad andare qualche volta da lei e insieme a loro partecipa alle celebrazioni nella chiesa del villaggio. Tanto basta, insieme alla fede convinta che ha trovato e vissuto in casa, a formare in lei l’ossatura della cristiana autentica, che non scende a compromessi e non fa sconti a nessuno. Di lei non si ricordano discorsi e tantomeno si conservano scritti autografi; soltanto si ha memoria della sua profonda avversione per ogni specie di peccato, condensata nel motto di Domenico Savio “la morte ma non peccati”, probabilmente trasmessole a catechismo o sentito in qualche predica. Dal 22 novembre 1944, nelle fasi conclusive della seconda guerra mondiale, le truppe dell’Armata Rossa occupano il villaggio, che come d’incanto si svuota: le case vengono abbandonate e gli abitanti che non possono darsi alla fuga, si nascondono in capanni, magazzini e scantinati. Le donne poi, per stornare da sé ogni possibile attenzione degli sgraditi ospiti, si sono accordate di indossare abiti neri, lunghi ed accollati, quasi monacali insomma e comunque in grado di celare ogni loro forma, sperando in tal maniera di sfuggire alle proposte e alle provocazioni degli invasori. Così ha fatto pure Anka, che malgrado i suoi soli 16 anni ha indossato un vecchio abito nero della mamma morta, rifugiandosi, insieme a papà ed altri familiari, nella cantina di casa, scavata sotto la cucina: si rivelerà una precauzione resa del tutto inutile dalla meticolosa perquisizione di un occhiuto militare russo che, con facilità scopre il nascondiglio. Anka è spinta con insistenza dal papà a dar da mangiare e da bere al militare, nella speranza che questi, una volta rifocillato, abbandoni la casa. La ragazza obbedisce come sempre, ma il militare, cui evidentemente cibo e bevande non bastano affatto, comincia ad insidiare la ragazza in modo sempre più esplicito. Nei momenti, che sembrano eterni, durante i quali si divincola con forza dalla stretta del militare e ritorna precipitosamente in cantina insieme agli altri, probabilmente Anka ha il tempo di pianificare la sua reazione richiamandosi ai principi cui si è fino ad allora ispirata. “Addio, papà! Gesù, Maria e Giuseppe”, ha solo il tempo di esclamare quando il militare, che l’ha rincorsa nello scantinato e si è ricevuto l’ennesimo rifiuto, le intima di salutare i suoi. Poi lo sparo, la morte, la sepoltura affrettata, che si fa di nascosto e senza celebrazione religiosa perché si ha paura dei russi. Per compiere il rito funebre bisogna aspettare otto giorni, cioè dopo la partenza degli invasori; molto di più, oltre 50 anni, perché i giovani si diano liberamente appuntamento sulla sua tomba per celebrarne il coraggio e per lasciarsi illuminare dal suo esempio. Anka, sembra proprio di poter dire, come il seme caduto nel terreno buono sta portando molto frutto, anche a distanza di tempo.