Albino Luciani – 1

Testimoni del Risorto 15.11.2017

Se alla scelta di prediligere le costellazioni minori alle stelle di prima grandezza fa eccezione oggi questa rubrica, non è certo per un mutato indirizzo agiografico quanto piuttosto per dovuta riparazione di un torto che il “testimone” in questione a mio giudizio ha subito. Non mi riferisco certo alla mancata volontà di accordargli la “corsia preferenziale” che invece fu concessa al suo successore, permettendo a questi di accelerare i tempi e di arrivare in meno di dieci anni alla canonizzazione,  quanto piuttosto alle tinte “gialle” e alle piste “nere” di cui è stata circondata la sua morte, attorno alla quale si è scavato fino allo sfinimento per giungere alla conclusione che, la sua, fu la morte più classica e “banale” che ci possa essere, avvenuta nel proprio letto per cause circolatorie, che lo rende, se fosse possibile, ancora più vicino a noi. Albino Luciani nasce nel Bellunese (a Forno di Canale d’Agordo, precisamente) nel 1912, talmente gracile e problematico, fin dai primi istanti, da dover essere battezzato in casa dalla levatrice per imminente pericolo di vita. Cosa che, tuttavia, non gli impedisce di crescere vivace, allegro, a volte birichino come testimonia la sorella, con ciò volendo rimarcare che non è in nulla dissimile ai suoi coetanei. Se non per l’intelligenza, che fortunatamente il parroco del paese sa cogliere, aiutandolo a svilupparla e facendolo studiare in canonica perché possa entrare in seminario. Perché questo è il suo desiderio, che la famiglia asseconda e che solo la mucca da lui portata al pascolo sembra voler contrastare, dato che un giorno, mentre il piccolo Albino sta giocando con gli amichetti nel prato, va a rovistare con il muso nella sporta, mangiandogli non solo la merenda di pane e formaggio che mamma gli ha preparato, ma anche il libro e il quaderno. Il bambino si dispera, credendo con ciò di dover rinunciare ad essere prete e si consola soltanto quando, proprio nel giorno del suo undicesimo compleanno, può finalmente varcare la soglia del seminario di Feltre e poi quello di Belluno. Ne esce il 7 luglio 1935 per essere ordinato prete, assegnato poi come vicario al suo paese di Canale d’Agordo, dove può svolgere “l’apostolato spicciolo che mi piaceva tanto”. Le tappe successive del suo ministero fanno onore alla sua intelligenza, lasciando capire che sul suo conto non ci si è sbagliati e smentendo soprattutto l’idea della poca cultura, che nell’immaginario collettivo gli viene attribuita quando poi sarà Papa, semplicemente partendo dallo stile dimesso e senza fronzoli con cui si esprime. Occorre infatti dire, innanzitutto, che si laurea in teologia alla Gregoriana di Roma nel 1947, che in diocesi è stimato docente anche nelle scuole statali, direttore dell’Ufficio catechistico, efficiente provicario e poi vicario generale. A fine 1958 è tra i primi vescovi nominati da Papa Giovanni XXIII, destinato alla sede di Vittorio Veneto. I due si incontrano in Vaticano pochi giorni prima di Natale, cioè ad un paio di settimane dall’ordinazione episcopale, e di questo colloquio don Albino lascia traccia nei suoi appunti personali, principalmente del consiglio che gli dà sullo stile della predicazione: “Parlare semplice, parlare chiaro, poche cose sentite: illuminare, illuminare”. Perché arriva direttamente dal Papa, o forse perché in perfetta sintonia con il suo stile che l’ha già portato a scegliere “humilitas” come proprio motto episcopale, sarà un consiglio di cui farà tesoro, in diocesi come in Vaticano, e che sarà il “tormentone” di certa stampa durante i soli 33 giorni di Pontificato. Solo oggi vengono invece in evidenza, dalle testimonianze raccolte, gli sforzi che gli richiedeva la semplicità di linguaggio ed espositiva che si imponeva, costringendolo spesso a riscrivere più volte lo stesso discorso o la medesima omelia, perché davvero fossero alla portata di tutti. Questi ed altri gustosi aneddoti sono stati raccolti da Stefania Falasca, vicepostulatrice della causa di canonizzazione, in una recente pubblicazione che è, insieme, rigorosa ricerca storica e fedelissimo ritratto del “Papa del sorriso”, di cui molto efficacemente parla Marco Roncalli sul quotidiano Avvenire. Una particolare sollecitudine per contrastare la secolarizzazione, l’ansia per il mondo del lavoro alle prese con emergenze occupazionali (…); l’accuratezza nella formazione del clero e l’impegno nella catechesi e nella missionarietà sono le caratteristiche di questi primi anni di episcopato.