Di grande aveva solo l’amore (1ª parte)

Maddalena Baravalle

“Voglio riposare sui trucioli, senza lenzuolo, senza fronzoli. Il lenzuolo che destinereste per avvolgere la mia spoglia, datelo ad una povera madre di famiglia bisognosa”. Chi arriva a lasciare simili disposizioni nel proprio testamento deve averne fatto di strada. Soprattutto verso la generosità e il servizio, perché, nella sua inesorabilità, la morte svela e rivela ciò che è stata la vita. Così è sicuramente anche per Maddalena Baravalle, che chiude gli occhi sulla scena di questo mondo più di sessanta anni fa, ma il cui ricordo a Fossano è gelosamente custodito. E se il nome, così come sopra riportato, forse a qualcuno può non voler dire nulla, è solo perché non abbiamo usato la locuzione più accessibile a tutti, cioè Magna Lena: dove, attingendo direttamente al gergo familiare, la parentela con tutti è garantita dal sostantivo “magna”, cioè zia, e il diminutivo riconduce ad un nome proprio, tra i più presenti nell’onomastica locale.

Diciamo subito che la “magna” per antonomasia dell’intera città non è fossanese di nascita: per Elisabetta Capello è nata a Levaldigi, mentre il nostro Direttore (cfr. La Fedeltà 18 marzo 2015) la fa nascere a Torino. Rimandando lo scioglimento del dubbio ad una quanto mai prossima ricerca d’archivio, l’unica cosa certa è la data della nascita, il 15 maggio 1879, perché indefinito è anche l’anno in cui si trasferisce nella nostra città. Sicuramente vi arriva in epoca di guerra, sfollata come tanti altri, per sfuggire alle incursioni aeree più intense sulle grandi città o perché la casa torinese in cui abita è già inagibile per i bombardamenti. Sicuramente a Fossano ha dei parenti (uno su tutti, don Giacomo Cavallo), mentre gli altri sono disseminati in Italia e anche in Francia: è assai probabile che proprio dal focoso e poliedrico arciprete di Borgo Sant’Antonio i fossanesi abbiamo imparato a chiamare “Magna” la piccola donna trapiantata da noi. Anche perché, dicono, sia merito di lei, almeno sotto l’aspetto finanziario, il suo essere prete, dato che gli ha sempre pagato gran parte della retta durante i lunghi anni di seminario e, da quando è parroco, è una delle più assidue benefattrici di Sant’Antonio. E pensare che non è ricca: vive del proprio lavoro e puntualmente distribuisce ogni spicciolo in carità, come lei stessa, indirettamente, confesserà nel suo testamento: “Sono dolente di essere povera e di non poter beneficare quanti vorrei. Le miserie altrui mi hanno sempre commossa, perciò non ho accumulato”.

A “commuoversi” inizia presto: i ricordi più lontani della sua infanzia sono legati al gran dispiacere di papà per la “vestimenta”, il vestito “buono” della festa, sparito dal guardaroba perché lei l’ha regalato al primo povero male in arnese che ha bussato alla porta di casa: un “vizio” che non perde crescendo, reiterandolo anzi ogni giorno più volte al giorno, ma soprattutto perfezionandolo, imparando cioè non solo a donare “cose”, ma soprattutto se stessa, il suo tempo, la sua disponibilità, il suo silenzioso affiancarsi a chiunque faccia fatica ad andare avanti. Il bene, si sa, bisogna farlo bene, con abnegazione e competenza, non facendolo pesare e, se possibile, senza farsi notare. Per questo, Lena frequenta i corsi da crocerossina e si addestra in disinfezioni, medicazioni e fasciature, per svolgere un servizio efficace, preciso, puntuale. La vedono vegliare, soprattutto di notte, nelle case o in ospedale, chi non ha nessuno, chi si trova in difficoltà per i parenti lontani, chi non può permettersi non solo un’assistenza a pagamento ma fors’anche le stesse medicine. “Mi sembra di vedere in quei volti quello di Gesù”, sussurra quasi a voler giustificare questa sua predilezione per i più bisognosi.

Raccontano anche di quel “barbone” (diciamolo sottovoce, perché è un termine che a lei non piace), vistosamente claudicante per un’ulcera, incontrato per caso in piazza Vittorio Veneto, non lontano da dove ora apre i battenti la nostra redazione. Per quel piede malandato la soluzione più ovvia, ma forse la meno dignitosa specialmente in luogo pubblico, è una corretta igiene e una medicazione d’urgenza, che Magna Lena esegue personalmente, accucciata per terra davanti al pover’uomo che ha fatto sistemare su una panchina, dopo essere corsa a casa per procurarsi una bacinella d’acqua, disinfettante, garze e bende. Per chi scuote il capo in segno di dissenso, come per chi osserva ammirato, unica è la giustificazione che riesce a trovare: “Il Signore lo sa che quello che faccio, lo faccio per Lui!”

(1 - continua)