Don Damiano Raspo, Viaggio in Brasile sulle orme di padre Bruno e della Chiesa in missione

Da Rio de Janeiro all’Amazzonia per mantenere vivi i legami e continuare a sostenere i progetti avviati

Raspo Damiano Brasile
Celebrazione in memoria di padre Luigi Bruno, chiesa di San Simone, Nova Iguaçu (Brasile)

Don Damiano Raspo nel mese di novembre è tornato in Brasile. Un viaggio per ripercorrere, 4 anni dopo, alcuni dei luoghi dove ha vissuto un’esperienza missionaria durata dieci anni e per incontrare la comunità a cui padre Luigi Bruno ha dedicato 40 anni della sua vita, ad un anno di distanza dalla sua morte. Un viaggio, a nome del vescovo e della nostra Chiesa locale, per mantenere vivi i legami e continuare a sostenere i progetti là avviati.

Venerdì 19 gennaio alle 20.45 nei locali della parrocchia del Salice a Fossano ci sarà un incontro di condivisione dell’esperienza di don Damiano, in accordo con l’ufficio missionario diocesano di Cuneo-Fossano. Nel frattempo, lo abbiamo incontrato per mettere nero su bianco alcuni momenti fondamentali del viaggio.

“È stato un viaggio importante, bello e faticoso - esordisce don Damiano -. La prima tappa è stata nella periferia di Rio de Janeiro, la seconda nella prelatura di Sao Félix do Araguaia, nello stato brasiliano del Mato Grosso, già in zona amazzonica, e infine Cuiabà. Quasi un mese, per la precisione 25 giorni, uno per ogni anno di ordinazione. Sono tornato là per la prima volta dopo quattro anni, non per rimanere, e avevo qualche timore: come andrà con la lingua portoghese? mi accoglieranno bene...? In realtà mi hanno accolto benissimo, con tanto affetto, fin dal primo giorno”.

Hai macinato un bel po' di chilometri...

Eh sì, ho fatto sei viaggi in aereo, due in pullman (uno di 900, l'altro di 1.500 km), auto affittate e avventure varie.

La prima tappa è stata la comunità di Nova Iguaçu, nella periferia di Rio, dove ha vissuto per oltre quarant’anni padre Luigi Bruno. Quando Luigi ha salutato la comunità per tornare in Italia nell’estate del 2022, non pensava che fosse il suo ultimo saluto: dopo un anno dalla sua morte come hai trovato la comunità?

Il mio è stato un viaggio non solo a titolo personale. Sono stato là anche a nome del vescovo e della nostra Chiesa locale, con il mandato di celebrare il primo anniversario della morte di don Luigi in profonda comunione tra le due Chiese, le comunità e la famiglia. Come hai detto tu, questa dimensione del lutto, loro l'hanno vissuta senza Luigi, cioè senza poter toccare il corpo, in fondo senza celebrare pienamente il lutto. E quindi abbiamo deciso di elaborare un po' il lutto nei giorni della mia permanenza nelle comunità dove ha lavorato Luigi.

Come avete celebrato la sua memoria?

igi più volte: prima nella sua chiesa di San Simone, poi nella comunità dei Martiri della Baixada Fluminense. Questa, che ho presieduto io, è stata una celebrazione “martiriale”, cioè fatta recuperando sia la storia della famiglia massacrata in quel luogo - e che Luigi ha ereditato come memoria fondante - sia le sfide che queste comunità vivono nelle periferie di Rio. Infine, la terza, più “ufficiale”, con il vescovo e un gruppo di presbiteri (c’era anche padre Renato Chiera) e tutte le comunità, ancora nella chiesa parrocchiale di San Simone, il giorno dell’anniversario.

A nome della diocesi ho portato un po’ di terra da mettere di fronte alla chiesa di San Simone. È un gesto che ho compiuto anche nelle altre tappe del viaggio.

Cosa significa?

Non c’è più la presenza fisica dei missionari della nostra diocesi, però questo non significa che non rimangano, oltre a terre mescolate, anche dei legami. E li vogliamo mantenere.

A proposito di legami da mantenere: in che modo le comunità di quella diocesi intendono proseguire i progetti che Luigi aveva iniziato e a cui la diocesi di Fossano era legata in tanti modi, attraverso le adozioni a distanza, le offerte di tanti amici e familiari, le raccolte di fondi durante le Quaresime di fraternità...

L’eredità di padre Luigi non svanisce: 40 anni di lavoro con le comunità hanno plasmato generazioni e prodotto frutti che non svaniscono. Certo, chi viene dopo in parrocchia porta con sé altre sensibilità pastorali, introduce dei cambiamenti... ma è inevitabile, è il destino dei fondatori.

Con i vescovi di là, e su mandato istituzionale di mons. Delbosco, ci siamo accordati su due progetti facilmente monitorabili a distanza e sul posto, perché hanno un carattere diocesano e non dipendono solo dalla volontà dei preti che si avvicendano nella parrocchia.

Il progetto principale è il Prevestibular Paolo Freire, per l’avviamento all’università, aperto a tutti, voluto da padre Luigi nel Centro pastorale parrocchiale. Si tratta di un percorso in cui alcuni giovani, già professori, preparano altri giovani dopo le superiori perché possano avere gli strumenti più idonei ad affrontare i test di accesso all'università. C’è anche una ricaduta locale: quelli che vengono formati sono dei leader, che poi mettono a disposizione le loro competenze quando si tratta di affrontare le emergenze, quando c’è bisogno di aiutare...

Il secondo progetto riguarda il centro dei Martiri della Baixada Fluminense, dove probabilmente Luigi voleva finire i suoi giorni. L’obiettivo è che possa continuare ad essere un centro di spiritualità, di preghiera, di accoglienza.

Nella seconda parte del viaggio sei tornato nelle comunità dove hai trascorso gli anni in missione.

Sì, ho visitato tutte le comunità, anche quelle dell'interno, molto distanti tra loro, ed è stata una bella occasione per ritrovarsi. Ero stato il primo prete di queste comunità, un po’ come un fondatore. Poi, nel 2019 sono tornato a Fossano e per quattro anni è stato tagliato il cordone ombelicale. Ma non è venuto meno l’affetto. Nei sette anni in cui sono stato là sono state poste le basi, ora piano piano si raccolgono i frutti. Ovviamente ci sono sfide e progetti avviati che altri sono chiamati a continuare.

Ne presento due.

La rete delle sementi, appoggiata dalla prelatura di Sao Félix do Araguaia. Gruppi di donne si sono organizzati a raccogliere sementi del luogo, cioè non geneticamente modificate. Sono semi indigeni di cui c’è una forte domanda nel settore dei prodotti di bellezza, ad esempio. Oppure da parte dei grandi latifondisti che, per riforestare, devono usare sementi o piantine indigene. Le donne si accordano prima sul prezzo, poi raccolgono i semi, confezionano i sacchi e li vendono, assicurandosi così un salario regolare, come uno stipendio mensile. È un modo per dare dignità e autonomia alla donna e assicurare un’attività economica remunerativa alle comunità più lontane.

Poi c’è la scuola di teologia che forma ai ministeri (ordinati e non), che ho seguito dal 2015 al 2019. Domenica scorsa è stato ordinato diacono il primo figlio di quella terra, un quarantenne nato proprio lì. La scuola contribuisce a creare una sorta di tessuto tra quanti l’hanno frequentata in questi anni, che poi saranno chiamati a collaborare insieme nella diocesi e nelle comunità. Penso che la nostra diocesi possa continuare a offrire un aiuto a questa scuola.

Il bilancio del viaggio in due parole?

Tanto affetto per le forti esperienze vissute e l’impegno a dare concretezza ai progetti di cui ho parlato. Come sacerdoti in missione abbiamo contribuito a far partire delle attività, ora occorre continuare ad alimentarle a distanza di tempo e di spazio, in una forma diversa che non è più quella della presenza. È una bella sfida, tutta da costruire.